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Godart, l’onda lunga dei valori della classicità

Godart, l’onda lunga dei valori della classicitàArte minoica, 1500 a.C. ca.: Vaphiò, bicchiere, part., Atene, Museo Nazionale

Civiltà egee La «Parigina» e le «Dame in blu» della reggia di Cnosso, il «Pescatore» di Thera-Santorini, Evans, Schliemann, Ventris, Demodoco e Femio: Louis Godart sulla genesi della civiltà europea in Da Minosse a Omero, Einaudi

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 8 marzo 2020

Le radici dell’Europa affondano nei declivi primordiali del monte Ditte, dove – secondo la mitologia greca – si unirono Zeus e Europa, la bella figlia di Agenore che il re degli dèi, dopo aver preso le sembianze di un toro, rapì dalle eburnee spiagge della Fenicia. Da questa stretta carnale nacque Minosse, il primo sovrano che la storia d’Europa ricordi. Louis Godart non ha dubbi: è a Creta che, intorno al 3200 a.C., apparve la prima civiltà europea, quella minoica. L’eminente specialista di antichità egee lo dichiara fin dal sottotitolo del suo nuovo libro, quasi ad avvisare il lettore che Da Minosse a Omero Genesi della prima civiltà europea (Einaudi «Saggi», pp. 414, e 40,00) non è un semplice saggio di archeologia ma un percorso di riappropriazione dei valori della Classicità, di cui i Greci sono stati i promotori. D’altra parte, chi ha già avuto modo di confrontarsi con l’intensa attività scientifica di Godart – nato in Belgio ma naturalizzato italiano – sa che egli ama specchiarsi nel Mediterraneo, alla ricerca dei lontani riverberi che ancor oggi illuminano la nostra comune storia. Non a caso, lo studioso – dal 1973 al 2002 docente di Civiltà egee presso l’Università Federico II di Napoli e poi consigliere per la conservazione del patrimonio artistico della Repubblica italiana durante la presidenza di Ciampi e, in seguito, di Napolitano – cita nell’introduzione Fernand Braudel quando afferma che la più pregnante testimonianza del passato del Mediterraneo è il mare stesso.
Delle tante patrie in cui si declina un così vasto «spazio liquido» Godart sceglie dunque l’Egeo, «il lembo estremo d’Europa che abbraccia l’Oriente dove è nata la Storia e l’Egitto dei faraoni che osava sacrificare all’aldilà l’essenziale delle sue ricchezze». E se dalla regione vicino-orientale la civiltà minoica mutua il sistema politico-economico del palazzo, nell’arte avviene, al contrario, una rottura degli schemi rispetto alle civiltà precedenti o coeve della Mesopotamia, della costa siro-palestinese, dell’Anatolia e dell’Egitto. Dal 1600 a.C. sull’isola del labirinto in cui Teseo sfuggì al Minotauro grazie al prodigioso filo di Arianna compaiono, nelle pareti delle stanze di rappresentanza dei palazzi e delle case private, aggraziate silhouette dipinte con le sfumature dell’ocra. Affreschi quali la «Parigina» e le «Dame in blu» della reggia di Cnosso o il serafico «Pescatore» della Casa occidentale di Thera-Santorini illustrano, per Godart, una civiltà «dolce e cortese, dove la donna è tenuta in grande considerazione in seno a una corte raffinata». Epifanie di fiori, di animali terrestri e marini caratterizzano inoltre una poetica dell’arte fino a quel momento inesplorata.
Di questo popolo laborioso e vivace, di cui l’autore del volume descrive con perizia e ammirazione i principali aspetti – dalle architetture palaziali alla scrittura, senza tralasciare le credenze religiose – nulla avremmo saputo se «con un colpo di bacchetta magica» Arthur John Evans non avesse restituito alla Storia le prove tangibili di avvenimenti che sembravano confinati al mito. In realtà, l’impresa di Evans fu dovuta certo a un pizzico di fortuna ma anche e soprattutto alle caparbie strade dell’intuizione. Nel 1893, infatti, l’allora conservatore dell’Ashmolean Museum di Oxford si recò in Grecia per condurre un’«inchiesta» su alcune pietre dai misteriosi segni. Da tempo, il figlio dell’esperto di numismatica John Evans si interrogava circa la possibilità che l’opulenta cultura riemersa dagli scavi di Schliemann a Troia e a Micene fosse in grado di produrre documenti scritti.
A quelle memorabili scoperte Godart, che nel 1996 pubblicò con Gianni Cervetti L’Oro di Troia. La vera storia del tesoro scoperto da Schliemann (Einaudi), dedica peraltro ampio spazio offrendo altresì al pubblico un’interpretazione poco romantica della biografia dell’ambizioso mercante del Meclemburgo. Dal confronto tra le pietre incise comprate presso gli antiquari di Atene e la collezione di gemme antiche del Museo di Berlino – di cui Adolf Furtwängler gli aveva fornito i calchi – Evans individuò un sistema grafico originale corrispondente a una scrittura che definì geroglifica (benché differente dalle scritture geroglifiche degli Ittiti e degli Egizi) e la cui provenienza era da riferirsi a Creta. Il resto della vicenda è uno degli episodi più entusiasmanti della storia dell’archeologia: le galopetres (letteralmente «pietre a latte») portate al collo dalle donne cretesi ancora a fine Ottocento, propiziarono le indagini di Evans che, sul nascere del ventesimo secolo – in un territorio ormai liberato dal dominio ottomano e con il favore del principe Giorgio di Grecia –, diede inizio alla prima di sette campagne di scavo nel sito di Cnosso.
Il palazzo di Minosse riemergeva dalla collina di Kephala a ritmo frenetico, assieme a centinaia di tavolette inscritte. Nell’immaginario moderno alla straordinaria rivelazione di tre scritture sovrappostesi negli strati risalenti al II millennio è subentrato l’inganno dei restauri «creativi», che hanno trasformato le rovine di Cnosso in un parco d’attrazione ante litteram. Godart riporta tuttavia l’attenzione sui meriti di Evans che, distinguendo Lineare A, Lineare B (la scrittura dei Greci micenei, succeduti ai Minoici intorno al 1450 a.C. in seguito alla distruzione dei palazzi) e scrittura pittografica, pose di fatto le basi per i progressi della disciplina. L’autore riserva qualche pagina anche a Michael Ventris, l’enfant prodige protagonista un po’ dimenticato della riscoperta delle civiltà egee. Fu infatti il giovane architetto inglese appassionato di scritture antiche a riconoscere tra il 1951 e il 1952 una lingua greca dietro i sillabogrammi della Lineare B, arrivando a decifrarla con la collaborazione di John Chadwick. La Lineare A, di cui negli anni ottanta del secolo scorso Godart ha realizzato con Jean-Pierre Olivier un corpus comprendente 1427 documenti – oggi arricchito da un centinaio di nuovi testi – permane invece irrisolta, così come il coesistente geroglifico cretese e la scrittura del disco di Festo.
A quasi trent’anni dall’uscita, sempre per i tipi di Einaudi, de Il disco di Festo. L’enigma di una scrittura e de L’invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia Godart effettua un bilancio sul tema, spaziando – con una trattazione tecnica nondimeno coinvolgente – dai resoconti amministrativi incisi in Lineare B su tavolette d’argilla ai «noduli», reperti che costituiscono il grosso delle attestazioni in Lineare A con 882 esemplari recensiti. Queste pasticche d’argilla, sul cui recto sono stampate delle impronte di sigilli mentre il verso conserva le tracce di cordicelle che servivano ad avvolgere rotoli in materiale deperibile, lasciano supporre l’esistenza di una perduta letteratura.
A questo proposito, Godart prova a immaginare una poesia minoico-micenea antecedente alla composizione dei poemi omerici. Seguendo Cornelis Jord Ruijgh, egli si chiede infatti se nei secoli della dominazione micenea sulla Grecia continentale e insulare alcuni aedi non abbiano trascritto qualche brano dei loro canti su papiri e pergamene, supporti più nobili ma allo stesso tempo più fragili dell’argilla. D’altra parte, la presenza nell’epos omerico di aedi come Demodoco presso i Feaci o Femio a Itaca dimostra che solide tradizioni di poeti-cantori erano radicate nella Grecia pre-omerica.
A Omero, colui che nel IX secolo fu capace di amalgamare gli episodi di una memoria orale risalente alla Grecia del Medio Bronzo dando vita a una «geniale opera d’arte», è dedicato il capitolo conclusivo del libro. Riguardo alla questione omerica, Godart propone un confronto puntuale dell’Iliade e dell’Odissea con l’epopea di Gilgameš nonché il racconto delle sue esperienze personali: tra il 1970 e il 1990 egli ebbe infatti l’occasione di incontrare nelle zone montagnose della Creta occidentale alcuni «aedi», semplici pastori talvolta analfabeti, che cantavano – accompagnandosi con la lira – le gesta dei Palikaria (combattenti cretesi oppostisi agli Ottomani) o la lotta dei partigiani dell’isola contro i tedeschi nella seconda guerra mondiale. Alla stregua di Milman Parry e Albert B. Lord nei Balcani, Godart poté infatti osservare come, attraverso la ripetizione costante degli epiteti riferiti ai moderni eroi delle tragedie greche, l’ombra lunga dei guerrieri micenei sia arrivata fino a noi.

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