Jean-Luc Godard non è sempre stato critico nei confronti della cultura e della politica americana. Come molti della sua generazione che assistettero alla liberazione dell’Europa da parte delle forze armate statunitensi, fu esposto alla pletora di film, jazz e altri elementi della cultura popolare americana che inondarono il continente dopo la guerra. All’epoca, gli Stati Uniti erano visti come una nazione giovane e dinamica, in contrasto con la società europea, conservatrice e stagnante, che era stata «macchiata» in termini morali dalla Seconda guerra mondiale. Come critico della rivista Cahiers du cinema, Godard esaltava il cinema americano e vedeva i suoi grandi registi – Alfred Hitchcock, John Ford e Howard Hawks – come «autori» ancor prima che fossero riconosciuti come tali negli Stati Uniti.

I primi film di Godard, come quelli di molti altri registi della Nouvelle Vague francese, erano del resto ricchi di omaggi al cinema americano. Fino all’ultimo respiro, il suo primo lungometraggio del 1959, è una variazione dei film di gangster americani; Une femme est une femme del 1961 è un riferimento diretto alla commedia musicale.

Questo punto di vista inizia a cambiare con la politicizzazione del cinema di Godard a metà degli anni Sessanta. In film come Pierrot le fou (1965) e Week End (1967), Godard ha mappato la moderna società dei consumi attraverso una gamma di simboli del tutto personali. La sua critica era rivolta all’epoca non solo alla società francese, ma anche agli Stati Uniti, culla del sistema capitalistico, che egli accusava di imperialismo economico e culturale. Nel 1967 Godard diresse anche un segmento del film collaborativo Lontano dal Vietnam, che criticava il coinvolgimento militare dell’America oltre i suoi confini. Quest’opera annuncia il suo abbandono del cinema tradizionale, della nozione di regista «d’autore» e la decisione di lavorare da quel momento in poi al di fuori dell’industria consolidata.

Dopo i disordini tra studenti, operai e polizia a Parigi nel maggio del ’68, Godard e Jean-Pierre Gorin, un attivista politico di orientamento marxista, fondano un collettivo di cinema politico che prende il nome dal regista sovietico Dziga Vertov. In questo contesto, Godard diresse una decina di film fino al 1972. Uno dei temi trattati era il terzo mondo e la sua lotta contro l’imperialismo occidentale. Questo è anche il momento in cui Israele entra nella sua opera – come rappresentante dell’America in medio oriente e oppressore dei palestinesi, che Godard identifica con il terzo mondo e con il suo sostegno alla liberazione e all’indipendenza.

Nel 1970, il «Groupe Dziga Vertov», con il finanziamento della Lega Araba, si recò in Giordania per girare un film di propaganda filo-palestinese intitolato Fino alla vittoria. Trascorsero diverse settimane seguendo l’addestramento dei guerriglieri palestinesi. Godard tornò in Francia con il filmato (girato in 16 mm) e iniziò il montaggio. Ma poi arrivò la notizia degli eventi del Settembre Nero, in cui l’esercito del re giordano Hussein massacrò migliaia di palestinesi (tra cui molti di quelli che erano stati filmati dal «Groupe»), al fine di impedire una presa di potere palestinese nel regno hashemita.

Godard, sconvolto, si rese conto che forse non aveva compreso a sufficienza la complessità del conflitto israelo-palestinese e delle relazioni interarabe e decise di abbandonare il film. Nel 1974, tuttavia, ne incorporò le riprese in un nuovo film, che montò per la prima volta con la tecnologia video. In quest’opera, Qui e altrove, Godard analizza il modo in cui le lotte del terzo mondo sono percepite in Francia e come il conflitto israelo-palestinese possa servire a illuminare i problemi delle relazioni di classe, della coercizione e dello sfruttamento nel mondo occidentale. Il film include una scandalosa analogia visiva tra le figure di Golda Meir e Hitler (con la colonna sonora della preghiera del Kaddish recitata per le vittime dell’Olocausto) – un’immagine il cui significato è difficile da confondere: L’ebreo, un tempo vittima, è visto come l’oppressore dei palestinesi. Quell’immagine, che negli anni Settanta fece a malapena scalpore (anche a causa della limitata distribuzione del film), col tempo è diventata una sorta di buco nero, «assorbendo» tutte le rivendicazioni di chi considera Godard un antisemita.

In realtà, il primo a rilevare tali sentimenti in Godard fu Francois Truffaut, suo caro amico del periodo della Nouvelle Vague francese degli anni sessanta. Nel 1973, in una lettera tagliente che segnò la fine della loro amicizia (e che divenne pubblica solo nel 1988, dopo la morte di Truffaut), Truffaut menzionò che Godard era solito chiamare il suo produttore, Pierre Braunberger, «sporco ebreo». Truffaut derideva anche le posizioni politiche militanti di Godard: «Dopo tutto, coloro che ti hanno definito un genio, indipendentemente da ciò che hai fatto, appartenevano tutti a quella famosa sinistra alla moda. Ma tu, tu sei l’Ursula Andress della militanza; fai una breve apparizione, giusto il tempo di far lampeggiare le telecamere. Fai due o tre osservazioni debitamente sorprendenti e poi sparisci di nuovo, lasciandoti dietro nuvole di mistero auto-assolutorio».

Focus sull’Olocausto
Negli anni ’80 la preoccupazione di Godard per il conflitto israelo-palestinese si espande a una discussione metafisica della questione ebraica e l’Olocausto diventa un tema centrale della sua opera. Godard si rifà agli insegnamenti del filosofo francese Gilles Deleuze, secondo il quale l’emergere dei campi di sterminio è stato l’evento formativo del XX secolo e che la crisi della società occidentale, incarnata da Auschwitz, si è riflessa anche nella contemporanea nascita del cinema moderno.

In questo spirito, Godard si è occupato in modo quasi ossessivo dell’esperienza dei campi. Nella sua Histoire(s) du cinema (1989), egli racconta il tradimento del cinema nel servire la macchina propagandistica del Terzo Reich, sebbene menzioni anche che il cinema «ha salvato l’onore della realtà» documentando le atrocità della guerra non appena i campi nazisti sono stati liberati. Si identifica con il destino del popolo ebraico e si proclama addirittura «juif du cinéma», riflettendo il sentimento di essere perseguitato e bandito dalla sua casa, anzi dal suo continente, e condannato a un esilio perpetuo (nella sua lettera, Truffaut deride anche la tendenza di Godard a presentarsi come una vittima, già all’inizio della sua carriera).

A questo proposito Godard ricorre ad alcune analogie che cominciano a suscitare un certo disagio, per non dire altro. Nel saggio audiovisivo del 1995 JLG/JLG – autoportrait de decembre, si è occupato della figura del Muselmann, il modo in cui veniva apostrofato nei lager l’ebreo moribondo, sottolineando che la radice di questa parola è «musulmano». Vista la sua preoccupazione per la tragedia palestinese, questa affermazione è stata ancora una volta interpretata come un tentativo di fare un’analogia tra il destino degli ebrei nell’Olocausto e quello dei palestinesi sotto l’occupazione israeliana.

Godard non ha mai confermato tali interpretazioni,  tendendo in genere a presentare la sua opera come arte poetica e associativa: ma è proprio questa qualità poetica che lascia i suoi film aperti all’interpretazione e al fraintendimento. Quelle che possono essere considerate le legittime critiche del regista all’occupazione israeliana e il suo sostegno alla lotta dei palestinesi per la libertà e l’indipendenza (della quale è stato tra i primi registi a interessarsi) perdono di validità quando Godard equipara – anche se in modo obliquo – il destino dei palestinesi a quello degli ebrei nell’Olocausto. La tragedia palestinese è abbastanza seria da non aver bisogno del «supporto» di tali paragoni, che distolgono dalla considerazione della natura specifica e politica del conflitto israelo-palestinese e si riversano persino nel territorio amorfo e irto della teologia e del mito.

Inoltre, sembra che negli ultimi anni Godard abbia fatto un uso deliberato della provocazione per rimanere nei titoli dei giornali in un momento in cui i suoi film non avevano più risonanza presso un vasto pubblico. Una delle sue ultime fatiche, Filme socialisme, denunciava la morte dell’utopia socialista nell’Europa del terzo millennio, ritratta come un continente in crisi, che celebra il suo declino come negli ultimi giorni di Pompei. L’ambientazione del film, e la sua principale metafora, è una nave da diporto che naviga tra le città del Mediterraneo. Tra i passeggeri c’è un capitalista ebreo, Goldberg, il cui nome Godard si prende la briga di tradurre letteralmente in francese come «montagna d’oro”.

Circa un anno prima dell’uscita del film, «Le Monde» pubblicò un lungo articolo sui temi ebraici nell’opera di Godard, la quale includeva una testimonianza di Alain Fleischer e che suscitò un’enorme polemica in Francia. Fleischer, che aveva diretto il film Frammenti di conversazioni con Jean-Luc Godard (2007), affermava che Godard avrebbe nel corso di una conversazione equiparato gli attentatori suicidi palestinesi agli ebrei che si sono «sacrificati» nelle camere a gas in nome della creazione dello Stato di Israele. Godard non ha mai confermato questa affermazione, e pure, come gli è usuale, non l’ha mai smentita.

Nessuna via di mezzo 

Godard è senza dubbio antisionista, ma infonde nella sua visione politica una dimensione metafisica che sembra non riuscire ad accettare la figura dell’ebreo se non come vittima. Secondo il regista, nel momento in cui si parla di un ebreo israeliano – e quindi di qualcuno che non può più dirsi vittima di per sé – questi diventa necessariamente un carnefice. Tra gli estremi di vittima e carnefice non c’è una via di mezzo, di quelle che illuminerebbero il conflitto politico da una prospettiva un po’ più complessa.

In modo simile, nel corso della sua carriera, Godard ha sviluppato un’immagine ideale e utopica dell’ebraismo della diaspora come universale, umano e spirituale, e un’immagine del sionismo – e di conseguenza dell’israelismo – come isolazionista, egocentrico e aggressivo. Questa dicotomia, che è alla base del rifiuto di Godard del nazionalismo ebraico, ignora il fatto che il sionismo, almeno ai suoi inizi, ha tratto ispirazione alla fine del XIX secolo dalle idee universali e moderne degli illuministi (cioè la normalizzazione della condizione ebraica, la liberazione nazionale, il socialismo e l’umanesimo), mentre durante molti capitoli della sua storia, l’ebraismo della diaspora è stato (e in una certa misura è ancora oggi) caratterizzato da un certo comunitarismo, se non dall’isolazionismo.

L’ossessione di Godard per le questioni ebraiche ha trovato un’espressione convincente nel suo film Notre musique (2004). Nel film, una corrispondente di «Haaretz» (interpretata da Sarah Adler) si reca a Sarajevo per intervistare il poeta palestinese Mahmoud Darwish (interpretato da se stesso). Darwish le dice che i palestinesi devono ritenersi fortunati a essere in conflitto proprio con gli ebrei, poiché il mondo si interessa costantemente agli ebrei e quindi lo farà anche al destino dei palestinesi. «Ci avete consegnato una sconfitta e ci avete concesso la gloria allo stesso tempo», aggiunge Darwish. «Siete il nostro ministero della propaganda, perché il mondo è interessato a voi, non a noi. Non mi faccio illusioni su questo punto».

* Critico cinematografico e storico del cinema, ha pubblicato questo articolo su «Haaretz», quotidiano israeliano, in occasione degli 80 anni di JLG (‘The «Jew» of Cinema’)