Tutto inizia con i Sex Pistols e tutto finisce, probabilmente, con i Sex Pistols. In particolare con il singolo: God Save the Queen. Come ebbe a sottolineare anni fa Jamie Reid, storico grafico situazionista della band: «Quella è stata forse l’ultima protesta pubblica contro la monarchia». E succedeva due volte: la prima nel marzo 1977, la seconda il 27 maggio di quell’anno. Nel primo caso il singolo (copertina nera e nome della label) sarebbe dovuto uscire per la A&M che stampa 25mila copie e le ritira dal mercato dopo averli licenziati. Storia: il 10 marzo, alle 7 di mattina i quattro Sex Pistols (Rotten, Vicious, Jones e Cook) approntano un banchetto davanti a Buckingham Palace e fingono – per la gioia dei fotografi – di firmare il contratto con la A&M che in realtà avevano già siglato per davvero il giorno prima. Sempre quello stesso giorno l’etichetta organizza un party di presentazione del gruppo e del singolo, dove la band scatena il caos e da lì al licenziamento del 16 marzo successivo il passo è breve. Il 27 maggio il singolo esce di nuovo, stavolta con la Virgin, e qui cambia la storia del rock e della grafica pop: in copertina – blu royal e argento, ossia i colori reali – la regina ha occhi e bocca coperti rispettivamente dal titolo e dal nome del gruppo; le lettere sono ritagliate da pagine di giornale come nelle missive anonime con cui chiedere un riscatto. È un assalto frontale alla monarchia e al suo «regime fascista» (come recita il testo). E contestualmente a un paese pre Thatcher di cui la regina è il simbolo, gravato da scioperi, tensioni sociali e da quelli che nel ’78 il primo ministro laburista James Callaghan chiamava «i mali dell’inflazione e della disoccupazione». Il punk nasce da qui, dall’esigenza di proporre una fiammata artistica e culturale al no future del tempo auspicando nuovi, possibili, futuri. God Save the Queen «arriva» al secondo posto in classifica in Gb, in realtà venderà più di Rod Stewart che sale al primo col singolo I Don’t Want to Talk About It abbinato a The First Cut Is the Deepest (in pratica due lati A). Non si vuole che nei giorni del giubileo (il climax è a giugno) quel 45 giri trionfi. Dirà Rod Stewart: «Se ci fossero stati brogli lo ammetterei; e comunque il pezzo era splendido e amavo i Sex Pistols; li ringrazio per dato un calcio in culo a me, Elton John, David Bowie e ad altri come noi. Hanno dimostrato che chiunque può fare musica». Il 7 giugno – cioè il giorno giubilare per eccellenza, con celebrazioni in Gb e in tutto il Commonwealth – i Sex Pistols attraversano il Tamigi sul barcone Queen Elizabeth, passano davanti al Palazzo di Westminster, gettano l’ancora e suonano tra i vari pezzi anche God Save the Queen: alla fine interviene la polizia arrestando, tra gli altri anche il manager Malcolm McLaren.
L’intervento di Jamie Reid sulla foto originale della regina scattata da Cecil Beaton, fotografo ufficiale della famiglia reale britannica, è radicale. Oltre a quella della copertina, Reid ne appronta anche altre di immagini, tra cui una con la bocca trafitta da una spilla da balia (tra i simboli del punk), una identica ma con le svastiche nelle pupille e un’altra (mai apparsa) con fiori e un coltello alla giugulare. La nazione è scioccata, e mai nessun pezzo – a prescindere dalle considerazioni di ognuno (genuino, pretestuoso, puro marketing ecc.) – sarà così divisivo come God Save the Queen, peraltro anche titolo dell’inno nazionale britannico. Il testo e il gruppo, più che la regina in sé, assassinavano ferocemente l’idea di monarchia e i suoi privilegi (a scapito del comune benessere); e anche stavolta, in occasione del lutto reale, lo hanno di nuovo confermato Glen Matlock, bassista originario, e il cantante John Rotten Lydon, anche autore di un pacato e pacificato commento in ricordo della regina. La riprova del potere incendiario – sempre attualissimo – di quel brano arrivava anche nel 2007, durante il tour di celebrazione dei 30 anni dall’uscita dell’album del gruppo Never Mind the Bollocks. Chi scrive era al concerto del 14 novembre di quell’anno alla Brixton Academy di Londra. Fino a quel momento tutti avevano cantato tutto, quando arriva God Save the Queen, il pubblico è smarrito, tace. Johnny guarda tutti e sentenzia: «Sono passati 30 anni e ancora avete paura di cantarla». Nient’altro da aggiungere. Nel 1977 quel brano fu così squassante e perentorio da spaccare un intero paese e spingere, ad esempio, i membri del parlamento a mettere al bando canzone e gruppo. Poi, lo scorso giugno, in occasione del giubileo di platino di Elisabetta, la ristampa in vinile di God Save The Queen è salita stavolta ufficialmente al primo posto in classifica in Gran Bretagna. Per quanto affilate, ciniche, impietose e pur sempre politicamente e culturalmente rilevanti, tutte le canzoni che sono arrivate dopo sembrano però quasi petardi, per quanto rumorosi; da The Queen Is Dead degli Smiths in cui si immagina la fine dei reali e il potere sottratto alla corona agli Stone Roses che in Elizabeth My Dear puntano a rovesciare la monarchia, passando per le irriverenze dei Manic Street Preachers, l’anarco furia dei Crass o i punti di vista di Housemartins e Blur che hanno riflettuto sulle rigidità, i privilegi e le ineguaglianze che secondo loro il sistema monarchico ha contribuito a sollecitare in Gran Bretagna.