Il diritto di resistenza è riferibile ad azioni di disobbedienza a leggi ingiuste o di rivolta contro forme di sopruso e di oppressione ritenute insopportabili. Tra gli esempi storici più significativi vi è quella che ricordiamo proprio col nome Resistenza.

La lotta di liberazione contro fascismo e nazismo che fece da base alla ricostruzione democratica del Secondo Dopoguerra nel nostro e in altri paesi europei. Un altro esempio riguarda le lotte d’indipendenza contro le dominazioni coloniali. Basti pensare, per tutte, alle campagne di disobbedienza civile di massa organizzate da Gandhi.

Oggi il diritto di resistenza si ripropone nei confronti di una nuova dittatura economica e politica. La ristrutturazione tardocapitalista degli ultimi quarant’anni ha compattato un blocco di potere dominante mai così forte ed esteso su scala internazionale. Esso esercita il proprio dominio nel modo più unilaterale e irresponsabile. Ci ha ridotti da cittadini a meri consumatori e, come tali, costretti all’obbedienza agli interessi dei gruppi economici dominanti. Nonché a conformarci ai sistemi di vita più rispondenti a quegli stessi interessi.

Ma in questo risiede anche una delle maggiori debolezze della mega-macchina. Infatti è possibile usare lo strumento del consumo come arma nella lotta contro il sistema ( Piero Bevilacqua, il manifesto, 28 aprile). E non c’è dubbio che la lotta in difesa dei diritti più elementari delle persone a emigrare per sfuggire a guerre e povertà sia basilare per altre rivendicazioni civili, sociali e politiche.

Il diritto di resistenza va impugnato anche, e congiuntamente, nella lotta contro la sfrenata mercificazione del lavoro e della natura.

Negli anni passati vi sono state numerose campagne di sabotaggio dei prodotti di multinazionali che sfruttano il lavoro infantile in condizioni intollerabili. Diverse campagne hanno riguardato inquinamenti e disastri ambientali causati da grandi compagnie petrolifere e altre. Sono state campagne importanti anche per sensibilizzare l’opinione pubblica, ma non bastevoli a determinare inversioni di tendenza.

Perché si possano ottenere cambiamenti effettivi e duraturi è necessario che azioni di boicottaggio e sabotaggio siano concepite come strumenti primari della conflittualità sociale e politica.

Per quanto riguarda il lavoro, di fronte al ricatto della delocalizzazione il tentativo di negoziato e lo strumento dello sciopero risultano spesso insufficienti. Occorre, allora, sabotare le imprese che trasferiscono la loro produzione in paesi a basso costo di manodopera.

Un altro modo efficace di colpire può riguardare i casi di “cattiva concorrenza”, quando attraverso fusioni o acquisizioni più o meno forzose le grandi imprese cercano di raggiungere concentrazioni produttive e finanziarie ancora maggiori. Le conseguenze comportano un restringimento del tessuto produttivo di interi comparti con pesanti ricadute sull’occupazione. In questi casi il boicottaggio dei prodotti può essere affiancato da altre forme di sabotaggio volte a colpire passaggi nodali della catena di valorizzazione del capitale profittando proprio della sua transnazionalità e complessità.

Sempre più stringente diventa pure la necessità di lottare contro guasti ambientali che espongono intere comunità ad alterazioni irreversibili del loro habitat e minacciano la loro salute. Pesanti inquinamenti industriali, discariche abusive, stoccaggio di materiali tossici e quant’altro hanno suscitato e continuano a provocare vivaci reazioni delle popolazioni direttamente interessate. Troppo spesso, però, le lotte restano circoscritte. Un impegno più sistematico e capace di sconfiggere gli interessi e le logiche che portano a tali risultati richiedono anche nuove forme di disobbedienza civile che, pur nel rispetto delle leggi, escano dalle trincee di battaglie difensive e incoraggino movimenti decisamente alternativi.