La dottoressa Antonella Litta, referente locale dell’Associazione medici per l’ambiente, ricorda sovente «l’amara lezione del lago D’Aral» nelle sue conferenze sull’inquinamento del lago di Vico. Per fortuna è un’iperbole. Ma ogni medico ha il dovere che gli deriva dal giuramento di Ippocrate di segnalare, e l’Isde lo ha fatto in diversi esposti alle istituzioni, «i possibili rischi sanitari per le popolazioni». Dal lago di Vico viene captata la maggior parte dell’acqua che rifornisce gli acquedotti di Caprarola e Ronciglione e le ordinanze comunali di non potabilità delle acqua a uso umano si susseguono ormai da anni. Fra i fattori all’origine dell’emergenza si trovano «l’agricoltura intensiva e la monocoltura della nocciola, con l’uso ultradecennale di fertilizzanti e fitofarmaci in prossimità del lago».
ALLARME GLIFOSATO. Il Corriere di Viterbo del 4 aprile 2018 chiama «bomba ecologica» l’abuso di erbicidi su noccioleti sempre più estesi. Nel luglio 2017, un’ordinanza del comune di Corchiano ha vietato in modo assoluto la sostanza attiva glifosato – considerata potenzialmente cancerogena. «Un esempio da seguire», per Famiano Crucianelli, presidente del Biodistretto della via Amerina e delle Forre. E l’agricoltore Luca Di Piero, i piedi nell’erba sotto i suoi noccioli, esclama: «Il diserbante non serve! Io non l’ho mai usato. I macchinari di oggi raccolgono nocciole anche con l’erba alta così! E i primi a intossicarsi sono gli agricoltori. Quella polvere che si solleva…E quanto all’eccesso di pesticidi e concimi, dov’è finita, quantomeno, la lotta integrata?»

UNA COLTURA RUSTICA SI È TRASFORMATA in monocoltura, in questa provincia che produce il 30% delle nocciole italiane? Lamenta Crucianelli: «La nocciola è una risorsa, ma occorre abbandonare la logica estrattivista e neocolonialista delle multinazionali. Il paesaggio si è modificato. L’università della Tuscia ha documentato un’espansione molecolare, anche là dove non va bene, con il conseguente aumento del fabbisogno di acqua». Senza attenzione ambientale, «l’uso scriteriato di pesticidi e agrochimici inquina falde, suoli e aria».

È EVIDENTE LA RESPONSABILITÀ di interessi multinazionali, in particolare della tigre del settore, la Ferrero, azienda nata ad Alba ma ormai holding internazionale. Il 9 maggio scorso, la Hazelnut Company, divisione interna della holding internazionale, ha presentato in società al Macfrut di Cesena il «Progetto nocciola Italia» che si propone, mediante contratti da stipulare con i coltivatori, di aumentare di 20.000 ettari le superfici e del 30% la produzione nazionale. Abbiamo chiesto chiarimenti all’azienda ma tardano ad arrivare. «La Ferrero compra, direttamente o indirettamente, l’80% delle nocciole viterbesi, quindi è il king maker nella determinazione del prezzo di acquisto anche da noi», spiega Andrea Ferrante, agroecologo del Biodistretto, organizzazione che da un anno a questa parte ha lavorato molto per «la vitalità di un territorio che riconosce la ricchezza delle sue produzioni ma non ne vuole diventare schiavo». Prima nessuno osava criticare il gigante. Ma davanti ai suoi piani di incentivo della coltura in decine di paesi, dal Cile alla Nuova Zelanda, dalla Serbia alla Georgia, dal Sudafrica al Canada, dalla Cina all’Azerbaijan, dalla Spagna agli Usa, il Biodistretto, spiegano Ferrante e Crucianelli, «ha avviato un processo di solidarietà internazionale fra produttori, per elaborare una strategia comune». Corilicoltori turchi, georgiani e italiani sono stati invitati all’«Incontro internazionale sulla filiera della nocciola»: dalla produzione locale al mercato globale – organizzato a Nepi il 17 aprile, giornata mondiale delle lotte contadine. Ha spiegato Kutsi Jasar della Confederazione dei lavoratori turchi su piccola scala: «Nel mio paese abbiamo due milioni di produttori su 700.000 ettari totali, con una superficie media inferiore a 1,8 ettari. Siamo poco organizzati e la politica governativa lavora con le multinazionali, che grazie all’acquisizione di compagnie turche ora controllano il nostro export.» Anche nel viterbese, Ferrero ha comprato la maggiore azienda di lavorazione delle nocciole.

LEGGIAMO NEL DECALOGO DI RICHIESTE alle istituzioni redatto dai produttori e dal biodistretto: «Non si possono accettare prezzi ingiusti e imposti. Occorre un coordinamento permanente, esteso ad altri paesi. E investimenti pubblici per la trasformazione e l’accesso al mercato. Lavoriamo per costruire mercati alternativi, cooperative locali, diversificazione produttiva. Gli agricoltori devono essere formati in permanenza soprattutto rispetto alle questioni ambientali. I diritti dei lavoratori agricoli vanno affermati. E chiediamo collaborazione nella ricerca, in particolare riguardo alla cimice asiatica».

GIÀ, LA CIMICE. ANZI DUE SPECIE DI CIMICE. Il flagello biblico di quella asiatica (Halyomorpha halys), involontariamente importata, non è ancora arrivato nel viterbese: «I noccioli rischiano la fine dei castagni uccisi dal cinipide anni fa – dopo immani e inutili trattamenti velenosi – e degli ulivi pugliesi con la faccenda xilella» spiega il produttore Luca di Piero. Ma fa danni anche la nostrana cimice del nocciolo (Gonocerus acuteangulatus Goeze); e la Ferrero porta ha una grave responsabilità ambientale: per pagare il prodotto a prezzo intero, l’azienda chiede una percentuale massima di «cimiciato» (danno da cimice) pari al 3% del prodotto, obbligando a diversi trattamenti. Una soluzione ci sarebbe, avanza Di Piero: «Primo, anche una percentuale di cimiciato un po’ superiore, tipo 5-6% non si sente nei prodotti trasformati; tanto più, poi, che la Nutella contiene solo il 13% di nocciole. Ferrero potrebbe accettare queste percentuali più elevate, oppure accollarsi i costi di maggiori scarti anziché gettarli addosso ai produttori». Ma l’azienda che vanta la «sostenibilità al 100%» e una presunta tracciabilità e salubrità del suo olio di palma (l’ingrediente chiave della Nutella insieme allo zucchero) non mostra invece alcuna attenzione per le condizioni produttive della Cenerentola nocciola. Ma «la Ferrero deve garantire la biodiversità e aprirsi a un tipo diverso di produzione, consapevole», insiste il presidente del Biodistretto. «Un tempo era un po’ come Olivetti…ma le nuove generazioni hanno preso un’altra strada».