Il ricordo indelebile di Giulio Andreotti risale ai funerali di Salvo Lima, il suo luogotenente siciliano, assassinato dalla mafia il 12 marzo del 1992. Parto da qui perché Lima non era solo il plenipotenziario di Andreotti in Sicilia, ma il vero capo della corrente che, con il suo ingresso, era uscita dall’ambito romano e ciociaro per fare un salto politico. Evangelisti, Pomicino e gli altri erano un gradino sotto. Il vero capo era Lima.

Di Lima, nella sentenza di primo grado del processo Andreotti si dice che «dagli elementi di prova acquisiti si desume che già prima di aderire alla corrente andreottiana, l’on. Lima aveva instaurato un rapporto di stabile collaborazione con Cosa Nostra». Dinnanzi alle insistenti domande sul perché la Dc non rompesse con lui, un importantissimo uomo politico democristiano siciliano, dopo avermi fatto spegnere il registratore, mi mise di fronte alla cruda realtà: «Ma tu mi vuoi vedere morto?». Nella sua “antibiografia” su Andreotti, appena pubblicata da Manni, (Andreotti, il Papa nero) Michele Gambino ricorda che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, il superpentito Tommaso Buscetta cominciò a parlare di Lima e degli esattori Salvo, tutti andreottiani. La sua corrente siciliana al vertice del potere isolano, fu definita da Carlo Alberto Dalla Chiesa «la famiglia politica più inquinata dell’isola».

Quel giorno dei funerali di Lima, il Divo Giulio era livido, ancor più ingobbito del solito, la bocca una linea sottile, appena una piega sul volto. Di lì a poco sarebbe partita la corsa alla presidenza della repubblica e Andreotti sapeva benissimo che quell’assassinio era un macigno sulle sue ambizioni, perché Lima era stato assassinato per aver disatteso i patti stretti con Cosa Nostra. Si sarebbe visto di lì a qualche mese quale offensiva sarebbe stata scatenata per costringere lo stato alla trattativa.

In quell’occasione ebbi modo di conoscere, insieme a Sandra Bonsanti, di che pasta fossero fatti gli andreottiani siciliani. In collegamento da Palermo avevo partecipato, insieme all’inviata de la Repubblica, a una puntata di Samarcanda condotta da Michele Santoro, dedicata all’assassinio di Lima. Dicemmo una cosa molto semplice: che per individuare i colpevoli di quel barbaro assassinio bisognava cercare la verità sulla vita politica di Salvo Lima. La trasmissione fu sospesa ed io e Sandra fummo fatti oggetto di plateali atti di intimidazione da parte degli amici di Lima. Vista la qualità di tali amici, non era esattamente rassicurante.

La maschera sorniona dell’andreottismo era però Franco Evangelisti, romano, capello impomatato e baffetto sottile, sempre pronto al motto e alla battuta. Era l’ombra del Divo Giulio e il tessitore dei suoi rapporti politici, un po’ come Gianni Letta con Silvio Berlusconi. Celebre la battuta che gli rivolse il costruttore Caltagirone : «A Fra’, che te serve?», imperitura epigrafe del legame degli andreottiani con i palazzinari romani, che costituivano, insieme alla Curia, alle truppe ciociare e al controllo della presidenza della Roma (di cui Andreotti era tifosissimo), il fondamento del consenso elettorale della corrente.

Fino a un certo punto, credo i primi anni ottanta, la corrente andreottiana, però faticava a uscire da una condizione di ultraminoranza. Il salto avvenne con Lima, e poi con Vittorio Sbardella, detto lo Squalo, padre padrone della Dc capitolina. Il soprannome la dice lunga sui suoi metodi spicci e tuttavia a Sbardella tutti riconoscevano un grande fiuto politico, di uomo capace di tenere in mano, come un pupazzo, il sindaco dc Pietro Giubilo. Nei primi anni novanta i veri padroni delle tessere andreottiane erano loro: Salvo e Vittorio. Il potere della corrente si espandeva seguendo quello del capo, tornato a guidare il governo dopo la parentesi craxiana.

L’uomo del dialogo, invece, era Paolo Cirino Pomicino, napoletano arguto, incappato in condanne e patteggiamenti per tangentopoli e in una delicata operazione al cuore, ma tuttora ben presente sulla scena politico-mediatica. Era l’altra faccia dell’andreottismo, tanto Lima ti faceva correre un brivido lungo la schiena scrutandoti con i suoi gelidi occhi azzurri, quanto Pomicino ne rappresentava l’aspetto curiale, pronto ad assorbire anche la critica più feroce. Da questo punto di vista, anche se non riguardava direttamente lui, fu clamoroso l‘arruolamento come portavoce di Andreotti di Stefano Andreani, il cronista di Radio Radicale, emittente avversa al sistema di potere democristiano. Quello era il metodo democristiano preferito da Pomicino: se uno ti azzanna fattelo amico. L’andreottismo era tutto questo: impasto di ferocia e bonomia, mafiosi e prelati, servizi segreti e sport. In una parola: il Potere.