Luis Rovisco ha una canzone in testa, qualcosa di più del «motivetto» che si pianta fastidioso – e non si aspetta altro che vada via – la sua è una ballata di rabbia punk no future che tocca la propria vita: passato e presente, rimpianti e paura, fantasie e paranoie, un sentimento confuso e devastante di ingiustizie subite. Impiegato in una ditta che installa telecamere di sorveglianza – dunque con una certa «prossimità» all’osservazione spiata delle esistenze altrui – Luis sta per andare in pensione. O meglio questo è il consiglio più che premuroso dei suoi colleghi di lavoro, compreso il ragazzetto in stage abilissimo coi sensori di ultima generazione di fronte alle sue svagatezze, ai conti mai in ordine, all’incapacità di maneggiare le tecnologie presenti. Lui però fa resistenza, non vuole essere messo da parte, e intanto si divide tra i viaggi di lavoro, l’amato gatto Napoleon, il figlio che saltuariamente dorme da lui perché litiga con la compagna, il nipote che adora e di cui si occupa con molta cura.

«TECHNOBOSS» è il nuovo film di Joao Nicolau, anche montatore – tra l’altro per Alessandro Comodin in L’estate di Giacomo e I tempi felici verranno presto, che a sua volta ha co-montato questo – nome di punta nelle nuove generazioni del cinema d’autore non solo portoghese – i «Cahiers du cinéma»hanno messo Technoboss nella classifica dei titoli più attesi dell’anno, e anche qui a Locarno era una delle hit nel concorso internazionale – un musical alla Jacques Demy e una slapstick in cui il regista lusitano compie una nuova esplorazione negli spazi dell’immaginario.

Quell’ «altrove» radicale di esotismo molto cool e adolescenza tra Lisbona e la Papuasia messo in scena nel precedente John From (2015) nel confronto col passato coloniale del suo Paese, si fa qui invenzione di mondi con aguzzo umorismo, surrealtà di fondali fioriti dietro i quali balena un Portogallo in trasformazione, quello attuale, gentrificato nel sentimento prima che nei luoghi.
La linea tutta maschile dell’universo che circonda il protagonista – magnifico Miguel Lobo Antunes, capace di recitare con ogni nervo e muscolo non essendo un attore di professione ma fino a poco fa una delle figure chiave nella politica culturale portoghese – oggi in pensione come il suo personaggio – crea una giravolta che permette l’illusione romantica dell’amore che cambia le cose, il contrappunto della canzonetta delicata ma come sappiamo ancor più difficile per non farsi banalità. È una storia d’amore Technoboss? Anche. Ma dell’innamoramento fa un (quasi) manifesto di resistenza. L’uomo solo e un po’ vecchietto ritrova una sua fiamma piantata anni fa (forse) Lucinda in uno degli alberghi in cui installa i suoi apparecchi, però non è solo questo così come non si tratta del «vecchio mondo» contro il «nuovo».

NELLA PARTITURA leggera che Nicolau affida ai gesti sghembi del suo personaggio in quella realtà sfuggente se non ostile, disseminata di trappole e di alter ego «nemici immaginari», l’immagine si allena a parlare del contemporaneo senza farsi intrappolare in alcuno schema. Nicolau si prende il suo tempo, avanza, fa dei passi indietro, dilata, esaspera, regala istanti di tenerezza e improvvise crudeltà; non cerca la «perfezione» di quelle scritture (poco cinematografiche) in cui tutto torna, piuttosto un po’ come nell’esperienza del suo protagonista rivendica il primo posto della fantasia, di un fare cinema che precede il mondo e mai lo illustra dove la libertà è la prima «regola».

Perché Luis – che la produttività mette ai margini – guarda invece al futuro ma soprattutto alla possibilità di sfuggire al controllo sociale o culturale, lo stesso che in fondo vende divertendosi però a sabotarne sempre qualche elemento dall’interno. Non si tratta di prima o di seconda età ma di modelli messi in discussione, icone della rappresentazione che devono rispondere sempre a un qualche obbligo narrativo. Per Nicolau vale piuttosto il contrario, si tratta di desiderio e di passione – lui per esempio gira in super 16 millimetri – di far cantare tutti, anche chi non lo ha mai fatto, perché il musical permette quello scarto, quel passaggio negli universi fantastici i che hanno in sé altissime dosi di reale.

È UNA SCOMMESSA che va oltre i singoli film interrogando appunto le possibilità del cinema attuale nella sua relazione con il mondo. E se le acrobazie – goffe – di Luis si fanno segno di quello sforzo di equilibri per trovare il proprio posto, il gesto è anche il punto di partenza in Les Enfants d’Isadora, in cui Damien Manivel, tra i giovani autori francesi oggi più bravi, rilegge Ma vie di Isadora Duncan. Non è una biografia la sua della danzatrice all’origine della danza moderna, piuttosto attraverso diverse figure – tra cui l’attrice Agathe Bonitzer – prova a cercarne l’indipendenza del gesto, quel suo porre la creazione artistica nella vita, nell’esperienza di diverse donne oggi. E lo fa partendo dal trauma che ha segnato profondamente Duncan, la perdita in un incidente di macchina, l’automobile precipitata della Senna, dei due figlioletti piccolissimi. Un dolore senza nome, un lutto a cui la nostra cultura occidentale non riesce a far corrispondere una parola per definirlo – vedova vedovo e come dire di una madre che perde i figli?

IL GESTO che le donne delle quali si intuiscono differenti vissuti di perdita provano a ricomporre oggi, in una dimensione appunto artistica – una coreografa, una danzatrice che lavora con una ragazza down – scivola in quello della vita, dell’esperienza, una donna tra il pubblico che vi ritrova lo stesso dolore. Ci sono poche parole in questo film affidato piuttosto alla tensione del sentimento, a quelle emozioni che scaturiscono dal rapporto nell’immagine tra chi la abita e i momenti che l’accendono di epifanie. Qualcosa di raro e di prezioso, un dialogo ininterrotto che fonda il senso di un’esperienza artistica.