Settant’anni sono passati da quel drammatico 14 novembre 1951 quando tra Canaro e Occhiobello, in provincia di Rovigo, il Po allagò il Polesine causando oltre cento morti e costringendo 180mila persone, un terzo degli abitanti, all’esodo. Ottantamila di loro non fecero più ritorno a casa, cercando un’alternativa di vita e lavoro all’estero o nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova.

Per undici giorni, fino al 25 novembre 1951, le acque del grande fiume dilagarono incontrastate, sommergendo centomila ettari di territorio. Oltre la metà dell’intera superficie della provincia di Rovigo si ritrovò coperta dalle acque fangose su cui galleggiavano carcasse di animali e quanto la potenza delle acque aveva strappato da case e suolo.

Per non dimenticare quella tragedia è in corso a Rovigo fino al 30 gennaio prossimo, a Palazzo Roncale con ingresso gratuito, la mostra «70 anni dopo. La Grande Alluvione» promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e curata da Francesco Jori che unisce al doveroso ricordo una analisi della resurrezione del Polesine.

Jori, cosa racconta la mostra?
Due cose fondamentalmente. La prima è il ricordo di quella che è stata una delle più grandi e gravi calamità naturali dell’Italia del Novecento che ha colpito in maniera relativamente tragica i morti, un centinaio, ma che si è abbattuta soprattutto sui vivi. Ottantamila polesani, in larga maggioranza giovani, un terzo della popolazione, ha dovuto lasciare per sempre la sua terra, che ha perso così un’intera generazione. La seconda è la straordinaria capacità di ripartire di quella che prima dell’alluvione era la provincia più povera del nord, omologabile alle più disastrate del sud, e che negli anni Duemila ha saputo allinearsi alla media dell’evoluto Veneto e superare per la prima volta nella sua plurisecolare storia il reddito medio nazionale. Dando così il messaggio che anche dalle peggiori catastrofi ci si può risollevare, se lo si vuole.

Tra le tante cose da vedere, ne può segnalare alcune in particolare?
Intanto lo spezzone del filmato dell’Istituto Luce proposto all’ingresso, davvero eloquente nella sua drammaticità, in un’epoca in cui la televisione ancora non esisteva. Poi la foto di un cineoperatore, in stivali e con l’acqua alle ginocchia, ma elegante e compassato in giacca e cravatta, che nei primissimi giorni dell’alluvione si aggira in Polesine per documentare l’accaduto. Infine, le foto delle persone colpite, nei primissimi giorni della tragedia: sono volti che parlano nel loro silenzio, in cui la disperazione si intreccia con la determinazione di ricominciare comunque.

Come accade sempre in Italia, anche allora vi fu una gara di solidarietà che la mostra racconta…
La risposta fu in effetti immediata e generosissima e in mostra vengono proposte le testimonianze. Da citare in particolare la «catena della fraternità» promossa in Rai da Vittorio Veltroni, padre di Walter, che fruttò la raccolta di un miliardo e mezzo di lire e 800 tonnellate di materiale. Vi fu anche la risposta internazionale di ben 82 Paesi, Usa e Urss in testa; anche se in pieno clima di guerra fredda il tutto venne accompagnato da polemiche reciproche oggi tragicomiche come, per esempio, la lotta tra giornali filo-Dc e filo-Pci per esaltare gli aiuti delle rispettive case-madri, Usa e Urss, e denigrare quelli avversari. La realtà fu che il soccorso fu generoso e trasversale.

Anche personaggi famosi diedero una mano, come Lina Merlin, prima donna eletta in Senato nel 1948, o come Coppi e Bartali tanto per fare dei nomi…
La senatrice raggiunse Adria fin dal 16 novembre per coordinare i soccorsi e dare una mano in prima persona, compresa la scelta di passare di casa in casa a bordo di un’imbarcazione per distribuire cibo, farmaci e vestiario. Qualche giorno dopo dalla sede del municipio di Adria lanciò un appello tramite i microfoni della Rai chiedendo aiuti urgenti. Quanto a Coppi e Bartali, rivali sulla strada, giocarono insieme a San Siro in una partita di calcio organizzata per raccogliere fondi.

A distanza di così tanti anni, la Grande Alluvione com’è oggi percepita nelle famiglie polesane?
Dei protagonisti dell’epoca pochi sono ormai i sopravvissuti. Ma i loro figli e nipoti conservano vivissimo il ricordo, o per aver vissuto la tragedia in prima persona anche se piccoli, o per i racconti sentiti in casa. A loro si affiancano le tantissime famiglie, venete ma non soltanto, che nelle settimane e nei mesi seguiti all’alluvione hanno accolto con grande generosità profughi e sfollati, e che in questo anniversario stanno rivivendo quei momenti. La prova sta nell’ottimo riscontro di visitatori della mostra.

I numeri di quella triste vicenda che cosa insegnano?
I danni sono stati davvero ingenti, parliamo di quattrocento miliardi delle vecchie lire, e della devastazione di un’economia basata quasi esclusivamente su una monocoltura agricola. Due lezioni ci restano: la prima è la diversificazione della produzione, puntando su un’agricoltura specializzata e affiancandole investimenti sull’industria, la cultura, l’ambiente. La seconda è la messa in atto di idonee misure di difesa del suolo e contro le acque, attraverso una serie di azioni differenziate sul territorio: grazie alle quali oggi il Polesine è l’area più al sicuro dai rischi idraulici dell’intero Veneto, che invece ha conosciuto di recente altre pesanti calamità.

Settant’anni dopo, il Polesine come ne esce?
Con un’economia sicuramente rafforzata che vede l’ex Cenerentola del Veneto pienamente allineata agli standard di punta della regione e con presenze di eccellenza, dal distretto ittico di Porto Tolle a quello della giostra di Bergantino. Ma anche con alternative non meno qualificate, dagli interventi di sviluppo sostenibile nella splendida area del Delta del Po, all’insediamento universitario gemellato con Padova e Ferrara, che vede oggi duemila studenti, e che ha appena varato un nuovo corso di laurea in ingegneria idraulica, tarato sulle esigenze del territorio. Il Polesine è una terra laboratorio di forte innovazione.