In un altro tempo, molti mondiali fa, all’epoca di un presidente partigiano mi capitò di seguire dalla California l’improbabile cavalcata della nazionale italiana in Spagna. Si era una manciata di amici che il destino aveva sorpreso in contropiede su un pianeta alieno popolato di surfisti mentre a due passi da casa si compiva un momento storico del calcio italiano.

Dopo la finale, il nostro sbandierante carosello di due auto, improvvisato per le indifferenti strade di Santa Monica, venne scambiato per la celebrazione non autorizzata di una qualche festività messicana e ci fruttò il severo avvertimento di un vigile. Per la generale completa noncuranza che ci circondava avremmo potuto essere su Marte e vivere l’evento epocale sull’emittente in lingua spagnola in una terra così profondamente ostica al calcio ci parve un amara ingiustizia.

Il calcio era a quei tempi, come tradizionalmente è stato nel calderone americano, in parte amuleto identitario di immigrati di prima generazione, un rito cospirativo da consumare a scapito della cultura egemone. Vettore di una squisita sovversione di parcheggiatori sudamericani e lavoratori che ogni quattro anni davano vita a un rito segreto nelle cucine dei ristoranti. Ma da allora le cose sono cambiate almeno quanto diversa è l’America obamiana da quella bianca e autarchica di quegli anni reaganiani. I mondiali in fondo sono un utile metro della globalizzazione «interna» quanto dell’assimilazione «culturale» di questo paese «eccezionalista» alla comunità mondiale, il progressivo erodersi dell’isolazionismo sportivo riflette un’integrazione di una superpotenza sportivamente autarchica che via via si aggrega al rito planetario. È impossibile non rifletterci in questa seconda settimana di mondiale 2014.

WORLD CUP MERCHANDIS
Intanto allora, negli anni 80, il calcio in Usa era davvero inesistente, non c’era un campionato professionista, ne una nazionale. L’ultima partecipazione americana a un massimo torneo risaliva al 1950 (gli americani non sarebbero tornati a qualificare una squadra che nel 1990). Poi la rimonta. Dagli anni 90 in poi il soccer è diventato meme ricreativo per generazioni di bambini delle scuole accompagnati ai campi di calcetto dai genitori, la Major league soccer (Mls), un campionato in cui hanno comunque militato Stoichkov e Beckham, in cui giocano Julio Cesar, Thierry Henri e David Villa, quest’anno ha assegnato il suo 18mo scudetto. E ora tutti conoscono la World Cup.

A vent’anni da quando il mondiale in America venne ospitato (o meglio chirurgicamente impiantato qui dalla Fifa, e quasi rigettato) il massimo torneo di calcio è infine un fenomeno mediatico, di costume e culturale anche negli Stati uniti. Se ne occupano i tg e i giornali. A cena o a un party fa cosmopolita, perfino hipster, commentare le partite, o al limite le inquadrature di Leonardo Di Caprio o Kobe Bryant sugli spalti. Il New York Times ha dedicato al mondiale un numero speciale e in rete fioccano le guide ai bar dove vedere le partite tutte trasmesse da Univision ma anche da Espn, Abc e in live streaming gratuito. A New York, Chicago, San Francisco le grandi città cosmopolite, certo, ma ora anche nell’America profonda dove il soccer alla fine è penetrato anche nella piccola provincia in precedenza dominio esclusivo del football, quello con la palla ovale. Sam’s Army, la tifoseria ufficiale della nazionale di calcio sancita dalla federazione, per dire, ha la base in Nebraska, stato tendenzialmente più familiare con la pannocchia gigante che rappresenta le locali squadre di basket e baseball che non con il pallone da calcio.

Sì, il calcio qui è decisamente ancora un genere di importazione ma vedere ragazzi che esultano per un gol di Dempsey (magari con un abbraccio – non previsto invece nel basket o nel football) è ormai quasi normale. «Il principale vantaggio del tifoso americano è l’ignoranza» scriveva due mondiali fa Sean Wisley nel suo saggio Why Americans Should Love the World Cup. «La mancata appartenenza a una singola tribù sin dalla nascita, ci permette un privilegio che altri non hanno. In quanto dilettanti possiamo scegliere in libertà le squadre che vogliamo tifare». Eppure la scorsa settimana la diretta di Usa-Ghana è stata vista da 11 milioni di persone segno che le cose anche in questo reparto stanno cambiando.
Stasera quando Team Usa cercherà di ripetere la vittoria al primo turno sul Portogallo, quella che nel 2002 gli avrebbe spianato la strada ai quarti – a oggi il massimo risultato in un mondiale – altri milioni seguiranno la partita e dato che in questo paese il calcio è una tradizione che si tramanda di figlio in padre piuttosto che viceversa, sarà un pubblico in prevalenza di giovani. Molti di loro, molti di più che quattro anni fa, sapranno chi è Ronaldo, forse anche Nani, una differenza importante da quando ancora un paio di anni fa Diego Luna, sfegatato tifoso dei rivali messicani, si lamentava: «Ormai gli americani ci battono spesso, ma il vero sfregio è che qui la gente manco lo sa».

Oggi invece non è inusuale che in fila da Starbucks il vicino si preoccupi (con buona ragione) dell’infortunio a Jozy Altidore delle cui incursioni sulla fascia destra Jürgen Klinsmann stasera dovrà fare a meno. D’altronde il tecnico tedesco-californiano va ripetendo che la sua squadra ringiovanita punta al 2018. Ma quando in conferenza stampa ha oggettivamente valutato che la squadra «non era certo da finale» ha provocato uno scalpore che ha rivelato almeno fra i giornalisti l’ingenuità di cui scriveva Wisley. Lo sport americano non ammette «disfattismi preventivi», e Klinsmann reo di non aver rispettato il copione ottimista dell’happy ending, almeno ipotetico, è stato tacciato di anti americanismo rivelando una dimestichezza ancora non ben sviluppata nei tifosi Usa con le filosofie che derivano da vite intere di sofferenze e sprazzi di gioia che solo il calcio sa dare ai suoi adepti.

Wilsey si beava del fatto che «sapere che la tua nazionale non ha alcuna chance in un mondiale è liberatorio perché ti permette di vivere senza sofferenza un mese di paradiso». Ma per gli americani i giorni dell’Eden sembrerebbero ormai contati. Forse già da stasera potrebbero venire condannati a una vita di estasi e tormenti come noi tutti.

Intanto, in parallelo, continuano gli altri mondiali: dei costaricensi che l’altro giorno sono scesi in strada a celebrare con le bandiere l’exploit contro la «grande» Italia, dei coreani riuniti davanti ai maxischermi allestiti a Koreatown e dei veri beniamini del sudovest ispanico del paese, quelli del Tri, il tricolore messicano, che domani cercherà, contro la Croazia, di chiudere in bellezza un girone iniziato nel migliore dei modi, e proseguito con un emozionante pareggio con gli anfitrioni brasiliani il quale ha mandato in visibilio i cittadini di Los Angeles in cui da un paio di anni la maggioranza parla – e tifa – in spagnolo.