A chi gli chiede cosa consiglia ai giovani filmmaker non ha esitazione: «Se frequentate una scuola di cinema lasciatela subito, nessuno può insegnarti come fare cinema, l’unico modo per imparare è farlo! Si deve essere liberi dagli schemi per esprimere il proprio lavoro, comprate un telecamera digitale e filmate. Ai miei tempi era molto più difficile, c’era bisogno di un’attrezzatura enorme, ma oggi con le nuove tecnologie bastano anche pochi soldi per iniziare.

Piuttosto i giovani dovrebbero guardare i film il più possibile, guardare come Hitchcock se la cava in ogni sequenza sia comica che romantica, come lavora con Cary Grant in Intrigo internazionale o con James Stewart in La finestra sul cotile …Sapete cosa mi ha detto una volta Stewart? Quando ha chiesto a Hitchcock cosa doveva fare mentre assisteva all’omicidio in La finestra sul cortile, lui gli ha risposto: ‘quello che fai di solito’». E lo sa bene William «Billy» Friedkin, che al cinema è approdato in modo quasi casuale – l’incontro con un cappellano nel braccio della morte, come ricorda nell’autobiografia Il buio, la luce (Bompiani) – mantenendo la sua irriverenza verso i poteri anche nei momenti di massimo successo hollywoodiano.

Ieri, il giorno del suo compleanno, 78 anni energici e pieni di umorismo, Friedkin ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera, e per l’occasione la Mostra ha presentato la versione restaurata di Il salario della paura – «Un film allucinante, difficilissimo, durante le riprese si sono ammalati tutti di malaria o di altro …»- racconta. «Dobbiamo ricordarci, e lo dirò ritirando questo Leone d’Oro (l’incontro è avvenuto ieri, ndr) , che come diceva Majakovskij l’arte è un martello. Questo è anche il ruolo del cinema: può trasformare la società. Il cinema può mostrare e far accettare le diversità. Il mondo oggi è al limite dell’estinzione. Siamo come ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, tutti minacciano tutti, ma oggi basta un pazzo che disponga di una bomba atomica per distruggere tutto. E non ci sono Superman o Batman che volano su di noi». Nei giorni in cui l’intervento americano in Siria sembra cosa certa, sono parole che suonano ancora più dure- «Gli Stati uniti non possono essere i poliziotti del mondo, nessuno può esserlo» taglia corto Friedkin.

Torniamo a Sorcerer, Il salario della paura (77), la sfida di un gruppo di uomini disperati e in fuga che per molti soldi, e per nuovi documenti, accettano di trasportare un camion pieno di esplosivo: «È il film che più si avvicina alla mia visione del cinema. E che trovo ancora oggi contemporaneo, attinente e originale. Non lo definirei un remake di Vite vendute (1953) di Clouzot, semplicemente perché non esistono i remake. Io ora sto pensando di girare un Rigoletto con Placido Domingo, naturalmente non sarà un remake del Rigoletto, ma una nuova versione». Non è l’unico progetto che ha in mente, questo. Ci dice infatti che sta anche pensando di lavorare di nuovo insieme a Tracey Letts autore di Killer Joe. «Vorremmo un western dei giorni nostri. Tracey sta lavorando ad una sceneggiatura basata su Furore di Steinbeck, da cui già John Ford ha fatto un film.

Se lo faremo lo porteremo a Venezia, sempre che ci invitino». E se la fine di un certo modo di fare cinema, sembra essere in questi primi giorni una costante del festival, proiettato nel suo Future Reloaded – come lo immaginano i 70 cineasti nei loro corti che celebrano i 70 anni della Mostra attraversando tutte le generazioni – lui come vede le cose? Spielberg ha affermato che gli Studios americani stanno implodendo, lanciando una polemica che ha segnato l’estate. E Friedkin? «Credo che non sia un problema. Forse lo è per gli Studios che oggi si occupano soprattutto di distribuzione, e per il resto sono un po’ come un casinò, fanno girare tanti soldi ma con i soldi che loro spendono per un titolo si potrebbero fare mille film.

Le cose migliori arrivano dalla tv via cavo, penso a serie come The Sopranos o Homeland, tra le cose di più alta qualità prodotte negli ultimi tempi». E aggiunge: «Magari in Italia non è così. So poco adesso del cinema italiano, conosco solo Garrone e Sorrentino, ma in America arrivano a fatica i vostri film. Prima non era così, guardavamo tutti al cinema italiano. Ma forse è anche colpa mia, sono diventato un po’ pigro, preferisco rivedere i film del passato in blue ray». Un ultima cosa: quali sono le cose più importanti che ha imparato facendo cinema? «Essere onesti con se stessi, da non confondere con l’essere soddisfatti di sé, ascoltare i collaboratori, e l’importanza del lavoro comune, che è fondamentale, il rapporto con il cast e con la troupe».