La vera finale è stata la semifinale Inghilterra-Nuova Zelanda”. Questo mantra, ripetuto a oltranza, ha intossicato l’intera settimana che ha preceduto Inghilterra-Sudafrica. A prendere per buona tale sciocchezza e le sue logiche bizzarre ne conseguiva che oggi il XV della Rosa avrebbe avuto vita facile contro un avversario che non meritava di trovarsi in finale. Va detto che durante il girone eliminatorio gli Springboks avevano perso nettamente la sfida con gli All Blacks; va altresì ricordato che i medesimi Springboks avevano di recente vinto il Championship dell’emisfero australe, facendo meglio di Nuova Zelanda, Australia e Argentina.

I telespettatori sintonizzati sulla finalissima avranno udito il mantra ripetuto in apertura del match e poi ancora, dopo un quarto abbondante di partita, con il Sudafrica avanti nel punteggio e un’Inghilterra umiliata in mischia chiusa e dominata nei punti di incontro. La “grande bellezza” di cui gli inglesi avevano fatto mostra contro gli All Blacks era improvvisamente appassita e il “brutto” rugby degli Springboks dettava legge man mano che si andava avanti. Le due squadre andavano al riposo con i sudafricani avanti 12 a 6. Handré Pollard da una parte e Owen Farrell dall’altra avevano scandito con i loro calci piazzati la sequenza del punteggio.

Dopo appena tre minuti di gioco gli inglesi avevano perso il pilone desto Kyle Sinckler, uscito malconcio e rintronato da un impatto. Al suo posto era entrato Dan Cole, 32 anni, novanta e passa caps sotto il segno della rosa dei Lancaster, affidabilità assoluta a condizione di non fargli giocare più di 40 minuti. A Cole, invece, toccava giocarne settantacinque; di fronte a lui, a incornarlo in mischia chiusa, c’era Tendai Mtawarira, meglio noto come “The Beast”, un flagello che lo avrebbe brutalizzato per tutto il tempo. Anche i Bokke potevano lamentare l’uscita di scena dopo venti minuti del seconda linea Lod De Jager ma il suo sostituto Franco Mostert non sfigurava.

La sfida a distanza tra gli allenatori, Eddie Jones lo Stratega e Rassie Erasmus il Sornione, volgeva da subito a favore del secondo. Erasmus alzava la linea di difesa e mandava in avanscoperta le sue sentinelle per ostruire le linee di passaggio degli inglesi, bloccando o rallentando la circolazione di palla. Underhill, Curry e Itoje, i temutissimi e tentacolari placcatori inglesi, trovavano pane per i loro denti nelle terze linee avversarie, i titanici Vermeulen, Du Toit e Kolisi. Il Sudafrica imponeva il suo spartito preferito – gioco al piede e bombardamento sulla retroguardia inglese – con una variante che prendeva di sorpresa l’Inghilterra: anziché insistere con gli sfondamenti per vie centrali, partivano improvvise aperture sulle ali presidiate da Kolbe e Mapimpi, temuti per la loro velocità.

Il rugby può essere armonico o sincopato e da sempre gli Springboks prediligono il ritmo rotto e discontinuo che interrompe il fraseggio dei loro avversari. E’ il secondo Coltrane che si oppone Glenn Miller: prima demolisce i canoni, poi parte l’assolo che non ti aspetti. I cultori del “tante mete uguale tanto divertimento” odiano il gioco del Sudafrica perché non apprezzano la necessità di rompere il fraseggio avversario e tarparne i crescendo. Lo percepiscono rude, disordinato e incomprensibile e invece è destrutturato.

Non c’è stato verso. Il XV della Rosa ha perduto per strada ritmo e fraseggio man mano che soccombeva sul piano atletico. Di qui Ben Youngs girava a vuoto, di là Faf De Klerk sembrava un imprevedibile folletto. Per tre minuti filati gli inglesi avevano schiacciato gli avversari a ridosso della linea di meta senza riuscire a segnare. La difesa dei Bokke era semplicemente pazzesca. Al 45’ un altro penalty di Pollard portava il Sudafrica sul 15-6, oltre il break. Farrell replicava sei minuti dopo. Era una sfida a calci che si prolungava fino al 18-12. L’ennesima sfida a pedate delle finali con di mezzo i sudafricani? Il pensiero di molti era questo: ancora loro e quel maledetto paleo-rugby.

Cominciava la girandola di sostituzioni. Al 66’, quando tutto lo Yokohama Stadium sembrava rassegnarsi a una finale senza mete, giungeva il grande assolo. Malcolm Marx innestava Makasole Mapimpi lungo la linea dell’out, l’ala eseguiva un perfetto calcetto in avanti, Lukhanyo Am raccoglieva e con un perfetto passaggio “no look” ritornava l’ovale tra le braccia di Mapimpi che volava in meta. Con la trasformazione di Pollard il punteggio era di 25-12, tredici punti di vantaggio, un abisso incolmabile. L’Inghilterra era in ginocchio, dominata fisicamente e priva delle risorse mentali per rimettersi in careggiata. Sei minuti dopo Am raccoglieva una palla vagante, Du Toit serviva Cheslin Kolbe e la piccola ala saltava come birilli tre giocatori inglesi per schiacciare nuovamente in meta. 32-12, sipario. In tribuna il Principe Harry abbracciava Cyril Ramaphosa, terzo presidente sudafricano nero dopo Nelson Mandela e Thabo Mbeki a godersi un titolo mondiale nello sport prediletto dalla minoranza bianca.

Il Sudafrica ha disputato tre finali (1995, 2007 e 2019) vincendole tutte e pareggiando i conti con gli All Blacks avversari di sempre. Ma in Giappone questa volta si è laureato campione del mondo dominando in lungo e in largo e schierando ben sei giocatori neri o meticci, due dei quali hanno realizzato le mete che hanno deciso la sfida finale. Per la prima volta nella storia a sollevare le William Webb Ellis Cup è un capitano nero, Siya Kolisi, nato e cresciuto in una township di Port Elizabeth. Nessuno potrà più dire che in Sudafrica il rugby è cosa per bianchi.