Cultura

Gli spettri burloni di un filosofo

Scaffale «Il fantasma e il desiderio» di Giulio Giorello, edito per Mondadori. Una raccolta di brevi storie perturbanti, narrate da una voce scettica

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 31 ottobre 2015

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«Un colpo secco contro gli infissi. La finestra si era chiusa con un rumore sordo. Folate radenti sfioravano il volto di Roberta come dita spettrali. Lei balzò dalla vasca, schizzando sul tappeto persiano. Poi un silenzio quieto, anche se fin troppo avvolgente, tornò a confondersi di aromi speziati e baluginii di candela». È il prologo a una delle scene più coinvolgenti di una storia di fantasmi sui generis, composta, non da un consumato scrittore di ghost stories o da un letterato, come ve ne sono, troppo incline a sirene spiritualiste, ma da un filosofo, un razionalista, un matematico.
Il fantasma e il desiderio, di Giulio Giorello (Mondadori, pp. 103, euro 18) è una raccolta di brevi e intense storie dalle suggestioni perturbanti, ma narrate da una voce «moderatamente scettica». Lo spiega bene l’autore nell’epilogo: possiamo introdurre le «finzioni» in due modi: secondo quello del «vero credente» o dello «scettico moderato». Questo perché «uno scetticismo più radicale impedirebbe la sospensione dell’incredulità che permette qualsiasi finzione ’ben fondata’». Giorello sceglie la seconda strada.

Il libro ci accompagna, con lo sguardo di un filosofo non chino alle superstizioni che aleggiano su tanta produzione cosiddetta «gotica» o «neo-gotica», lungo i sentieri di racconti che però sono radicati in quel vasto marasma di folklore, leggende, e mitologie da cui traggono linfa le storie del terrore. E se ci accompagna come un ospite onesto è proprio per via di quel «distacco ironico» da una materia che, per sua natura, fa appello al mondo dell’indicibile e dell’invisibile; o in altre parole, alla nostra sopita coscienza del non detto.

I racconti di Giorello, che dall’Irlanda a lui cara derivano più d’uno spunto, sono tratteggiati a fil di penna, e sempre al limitare tra tre dimensioni: quella del resoconto del «fantastico», direbbe Todorov, quella dell’ironia di un narratore discosto, e infine, quella del lettore a cui è richiesto un seppur momentaneo cedimento alla credulità.
È la lezione di uno dei modelli dichiarati di Giorello, in questo genere, quel «Montie» Rhodes James la cui opera completa uscì in Italia per le cure del compianto e geniale Malcolm Skey. James fu un abilissimo costruttore di storie situate immancabilmente sulla sfumata soglia tra il reale e il percepito, tra l’esistente e l’immaginato.

Da uno squisito racconto ispirato all’epistolario, che ha per protagonista Spinoza alle prese con le apparizioni di presenze sfuggenti, ci si muove per atmosfere più recenti tra le guglie di una cattedrale dove angeli di marmo si mostrano capricciosamente gelosi e interferiscono con le vicende degli umani. E poi, passando per «umili magioni» in cui il vecchio trucco del doppio s’incardina in trame che da artistiche mostrano vivide tinte allucinatorie, si arriva alla vera perla del libro, Le foglie della Sibilla. È un racconto ambientato in Scozia in cui campeggiano un letterato di Belfast e un matematico milanese seguace di Cantor, che tra birre e whiskey in un pub di St Andrews si dichiara «autore di una delle teorie matematiche più profonde che siano mai state concepite da mente umana», una teoria in grado di bloccare «la risalita degli infiniti dall’abisso».

In questo racconto, e nel libro, lo sguardo ironico e disincantato dello scienziato si colora di ammiccamenti alla sfera di un occultum, che dalle trite e obsolete periferie dello pseudo-spirituale, riesce pacatamente a tornare al suo significato etimologico di celato, nascosto, e dunque, invisibile, ma solo perché non visto.

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