Molti allestimenti d’opera oggi sono ambientati per intero al chiuso di un edificio o di un singolo appartamento, scelta usualmente giustificata dalla chiave di lettura del dramma borghese, applicato con generosa larghezza di spettro ai più disparati titoli del teatro musicale. Le soluzioni più varie, dall’astrazione alla più dettagliata resa realistica, risalgono spesso ben più indietro nel tempo di quanto il riferimento al teatro borghese possa pertinentemente concedere. Non così per le opere del ceco Leós Janácek, che in effetti sviluppano il proprio violento portato drammatico anche a partire da situazioni e ambienti domestici. Nella Jenùfa allestita ad Amsterdam, opera cui la regista Katie Mitchell torna per la seconda volta dopo vent’anni, gli spazi chiusi di appartamenti e uffici dominavano i tre atti, marcandone la drammaturgia (scene e costumi di Lizzie Clachan ). La scena si articolava in tre sezioni orizzontali , con ambienti minuziosamente ricostruiti, come già in altri spettacoli della regista britannica.

Nel primo atto gli uffici e la mensa del birrificio dei Buryja, dove Jenufa lavora e viene sfregiata da Laca, bellimbusto in tuta e T-shirt; nel due successivi diverse porzioni dell’appartamento della matrigna di Jenùfa, Kostelnika, con il nascondiglio-cantina dove nasce il figlio segreto della ragazza e Števa e poi il tinello di gusto Ostalgie dove la modesta festa per le nozze di Laca e Jenufa viene interrotta dall’orrenda scoperta del cadavere del neonato, con l’autoaccusa di Kostelnicka e l’inattesa, luminosa risoluzione finale. Mitchell introduce però anche la centralità del gabinetto, che nel primo atto è in bella vista nell’intercapedine scenica centrale, visitato da tutti i protagonisti della vicenda, per motivi che vanno dal trucco alle funzioni corporali, dal pianto solitario alle nausee di gravidanza fino al fugace tentativo di rapporto sessuale imposto da Števa a Jenùfa. Anche l’ultimo atto propone due visite al bagnetto laterale della casa di Kostelnicka, portando complessivamente a sette le scene ambientate alla toilette.

Come sempre Mitchell magnificamente masse e protagonisti, ma forse eccede in un manierismo realistico inutilmente provocatorio. La claustrofobica scatola peraltro nuoceva non poco alla proiezione delle voci, specie di Annette Dasch e Pavel Cernoch, Jenàfa e Laca intensi, perfetti scenicamente ma talvolta al limite delle possibilità vocali. Ben caratterizzato e cantato lo Števa di Norman Reinhardt e così tutte le parti di fianco, fra cui spiccava elegante «nonna-manager» Buryja di Hanna Schwarz. Svettava invece selvaggia l’ampia voce di Evelyn Herlitzius, una Kostelnika tragica e disperata, quasi priva di tratti di dolcezza. Tomáš Netopil sul podio restituiva bene il tumultuoso fluire della vicenda e la ricchezza coloristica della partitura, curando con sensibilità ogni delicato dettaglio della concertazione. Pubblico entusiasta.