Sperimentare dal basso, formare movimenti più che sociali, creare nuovi mondi e ontologie altre. Tentativi complessi, quasi oscuri, ma forse necessari per affrontare un periodo che non può più ignorare la ormai cronica mancanza di un orizzonte definito per le esigenze di giustizia ecologica e socio-economica. Experimental practice. Technoscience, alterontologies and more-than-social movements (Duke University Press, pp. 344) di Dimitris Papadopoulos interviene su quelle domande che da anni risuonano sia in ambienti militanti che accademici: perché l’immenso potenziale di tutte quelle lotte disperse su base globale che si sono susseguite negli ultimi anni non si è tradotto in una trasformazione sociale radicale e duratura? Come possiamo pensare i movimenti e l’autonomia oggi? Come costruire il comune?

QUESTE DOMANDE si innestano nel contesto capitalistico contemporaneo dominato dalla finanza e esteso alla totalità della vita. In questa bio-finanziarizzazione, le lotte non possono più semplicemente prendere come bersaglio le istituzioni politiche tradizionali. Da qui nasce la necessità di una pratica sperimentale orientata alla riconfigurazione delle condizioni materiali dell’esistente. Tali pratiche esplorano la materia nella sua pienezza, in un orizzonte che è da subito post-umano o più-che-umano: permacultura, tecnoscienze, migrazioni, makerspaces. Pratiche dal basso che assomigliano molto al fai-da-te, ma che, in quanto più-che-umane, tendono più al fai-senza-di-te: un processo creativo che sperimenti formi di vita per la coesistenza tra altri esseri e cose, in cui l’io si mette da parte per favorire questa convivenza.

Papadopoulos è professore in Scienza, Tecnologia e Società all’università di Nottingham. Autore molto conosciuto nel panorama anglofono degli Science and technology studies soprattutto per il suo Escape routes (2008), anche in assenza di traduzioni italiane del suo lavoro Papadopoulos rappresenta già una voce nota a tutte quelle ricerche sul comune e sul commonfare che si sono sviluppate in Italia negli ultimi anni.
In questo suo ultimo libro, Papadopoulos indaga quelle pratiche tese a creare le infrastrutture necessarie per la costruzione di spazi autonomi del comune. È la mancanza di infrastrutture durevoli che viene indicata come causa della mancata realizzazione delle potenzialità delle lotte sociali degli ultimi anni.

AUTONOMIA POLITICA oggi richiede interconnessioni materiali, processi di organizzazione pratici, coesistenza quotidiana e proliferazione di pratiche creative che sperimentano con la materialità. Sono movimenti tesi a creare nuove forme di vita aperte, condivise e durature che attraverso una sperimentazione dal basso intervengono sul continuo tra l’umano e il non umano. Si tratta di alleanze ontologiche: interazioni, modi di conoscere, pratiche che riguardano piante, terreni, composti chimici, energie, altri gruppi umani e i loro ambienti, altre specie e macchine. Per ontologie si intendono spazi materiali aperti (sia tangibili che virtuali), condivisi e duraturi che possano essere abitati autonomamente da queste comunità: articolazioni materiali alternative. Papadopoulos esplora come queste esperienze portino alla luce mondi nuovi, creando forme di vita che fino a quel momento rimanevano impercettibili. Sono biforcazioni dentro e contro l’esistente che ammassano elementi eterogenei in combinazioni inusuali fino a creare ontologie altre in cui i diversi elementi umani e non umani possano finalmente riconoscersi politicamente come attori costituenti di un orizzonte di giustizia sociale pratica e generativa.

IN QUESTO SENSO si passa attraverso una riconfigurazione dei saperi e delle condizioni in cui questi saperi vengono prodotti. Le pratiche quotidiane si fanno laboratorio. Una rottura radicale con l’epistemologia occidentale ancora imperniata sul nesso tra modernità e colonizzazione in cui la materia è ridotta a frontiera da conquistare e da espropriare. Tale operazione richiede un movimento decolonizzante che favorisce l’emergere di un non-esistente che la materia racchiude come potenzialità impercettibile. Ma quando quel non-esistente organizza il suo esistere assistiamo alla creazione di nuove infrastrutture del comune. Queste infrastrutture sono laboratori diffusi in cui il potere di invenzione e di innovazione si ridistribuisce in spazi inusuali.

PAPADOPOULOS guarda alle migrazioni come laboratorio che reinventa continuamente le infrastrutture che rendono possibili la libera circolazione dei migranti a dispetto del regime di chiusura dei confini nazionali. Rivede laboratori in contesti che vanno dall’esperienza dell’attivismo sull’Aids negli anni ’80 fino alle comunità di makers e hackers in Inghilterra, passando per la neuroplastica e l’epigenetica. Un lavoro che coniuga scienze sociali, filosofia e ricerca militante in un mix metodologico che l’autore definisce barocco. Una dispersione quasi confusa che restituisce l’idea di una pratica sperimentale che procede per tentativi creativi e mai certi.
Un’idea di pratica politica che mette in secondo piano lo scontro con il potere e mira a creare forme di vita nuove, autonome, ma sempre resistenti e alla continua ricerca di nuovi laboratori per ontologie altre.