Nell’articolo di Piero Bevilacqua «La gaia scienza degli Ogm», uscito sul manifesto il 21 aprile, si citava un intervento di Cattaneo e Corbellini apparso su La Repubblica e focalizzato su argomentazioni tutte riguardanti gli effetti sulla salute e sull’ambiente dei prodotti e/o dei cibi Ogm. Questo approccio, tutto concentrato sulle ragioni della scienza e del progresso, è non da oggi prevalente quando si parla anche autorevolmente di Ogm. Quello che mi sorprende è che lo stesso dibattito politico, nei rari interventi sul tema, si limiti alla questione se gli Ogm facciano male o bene alla salute e all’ambiente. Cosa che, naturalmente, è di fondamentale importanza, ma si finisce quasi sempre per trasformare il dibattito in una sorta di tifoseria divisa tra quelli che sono per il progresso scientifico e quelli che si attarderebbero su posizioni antiscientifiche e contro il progresso.

Sorprende che non ci si soffermi sulle ragioni e gli interessi in gioco che esercitano così massicce pressioni perché si dia impulso allo sviluppo e all’introduzione degli Ogm nelle normali pratiche agricole, sulle implicazioni politiche e geopolitiche, sul modello di economia e di società di cui gli Ogm sono espressione e parte integrante. Come giustamente fa osservare Bevilacqua, non ci troviamo di fronte alle pratiche «di miglioramento» delle piante condotte da genetisti, biologi e agronomi per millenni. Il lavoro di miglioramento delle specie vegetali e animali, svolto per secoli e con grande impegno e dedizione dagli scienziati in centri di ricerca pubblici e universitari o nei tanti centri sperimentali del Ministero dell’Agricoltura, oramai quasi del tutto scomparsi, ha dato risultati di cui potevano beneficiare liberamente tutti gli agricoltori.

Di una nuova varietà di grano, e ce ne sono state tante nell’ultimo secolo, potevano beneficiare tutti: dall’agricoltore che incrementava la sua produzione per ettaro e migliorava il suo reddito, alla società che poteva contare su una maggiore disponibilità di cibo. Lo stesso discorso vale per il miglioramento genetico degli animali domestici. Il mulo, questo straordinario «Ogm» risultato di un incrocio interspecifico, era alla portata di tutti e tutti potevano liberamente ottenerlo e liberamente beneficiarne: dal contadino per i lavori pesanti dei campi, agli alpini per i trasporti di armamenti su sentieri e luoghi impervi.

Lentamente, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, le cose hanno cominciato a prendere un’altra piega e a mostrare nuovi risvolti, fino ad arrivare alla produzione di organismi geneticamente modificati con interventi diretti di manipolazione sul genoma.

Gli agricoltori di Pachino, che producono l’apprezzato pomodorino Igp, un ibrido F1 prodotto dalla ricerca genetica israeliana, sono costretti a ogni semina a comprare i semi dalla società proprietaria dell’ibrido. I polli che tutti comprano nei banchi macelleria dei supermercati italiani, prodotti e distribuiti da 3 gruppi industriali che da soli controllano l’80% del mercato italiano, sono ibridi F1 di proprietà di 2-3 compagnie israeliane e americane che dominano il mercato mondiale. Gli allevatori, attraverso assai discutibili contratti che li legano ai noti marchi di produzione e distribuzione, per ogni ciclo produttivo (5-6 all’anno) devono obbligatoriamente acquistare sempre i pulcini da quelle poche compagnie proprietarie del prodotto genetico di partenza.

Il meccanismo di «dipendenza» totale lo si può riscontrare applicato oramai a quasi tutti i semi di piante orticole: pomodori, peperoni, fagiolini, ecc, e a diverse specie animali quali polli, tacchini, suini. All’agricoltore è sottratta la libertà di disporre di semi ottenibili dalla sua produzione come era accaduto per millenni. Questo aspetto, spesso sottaciuto non può non incutere allarmanti e inquietanti preoccupazioni, perché si sta parlando di cibo, di risorse essenziali per la popolazione mondiale.

Non si può non vedere quello che sta accadendo in questo campo nel mondo e, in particolare, nei paesi in via di sviluppo.

Ho modo di frequentare per motivi di lavoro alcuni paesi africani, nei quali c’è un bisogno impellente di produrre cibo per l’alimentazione di base di milioni di persone: latte, uova, carne, prodotti a base di carboidrati.

È sotto gli occhi di tutti lo scontro tra due visioni nell’approccio al problema dello sviluppo e dell’alimentazione: da una parte Ong e settori di governi che vorrebbero puntare allo sviluppo di un’agricoltura sostenibile, indipendente, muovendo dalle risorse e dalle caratteristiche dei loro territori; dall’altra la visione neoliberista, che sarebbe più appropriato definire neocoloniale, espressa dalla pressione di potenti multinazionali e settori molto spesso corrotti dei governi, che vorrebbero riprodurre i modelli occidentali in larga scala, indisturbata dalle, seppur rade e spesso velleitarie, sensibilità ambientaliste presenti in occidente.

Lester R. Brown, che, come è noto, non è un pericoloso comunista, nel suo bel libro Full planet, empty plates, affronta in modo analitico e documentato questi problemi ai quali ho fatto cenno e altri, altrettanto inquietanti. Lo fa con rara puntualità e competenza. La sua lettura farebbe bene a tanti che si cimentano nell’affrontare questioni di grande rilevanza e complessità evitando superficiali e suggestivi approcci. E farebbe bene a più di qualche politico che dovrebbe avere a cuore l’interesse della comunità che è chiamato a rappresentare, sforzandosi di avere una visione più ampia e articolata. Perché l’uso della parola Ogm non sia sconnesso dal carico di significati e implicazioni che si porta dietro.