In questi giorni, è come se il mondo là fuori esistesse attraverso le immagini che ci arrivano dagli schermi di televisione, pc o cellulare. Anche se il Cinéma du Réel si è chiuso, una selezione dei film in concorso si trova gratuitamente fino al 5 aprile su Festival Scope, altri nella versione Pro. È una soluzione che permette al pubblico di vedere già alcune opere nell’attesa e con la speranza che possano circolare e che il Pompidou le programmi, virus permettendo, nel mese di giugno.

IL CINEMA del reale ci parla di conflitti ancora in corso, di ingiustizie irrisolte, apre i nostri occhi su geografie più vaste e su dimensioni del tempo che vanno oltre l’immediato presente. Per esempio, nella competizione internazionale, Aswang di Alyx Ayn Arumpac racconta l’escalation di violenza iniziata quando nel 2016 Rodrigo Duterte è stato eletto presidente delle Filippine. Con il pretesto della guerra alla droga, la polizia compie torture, sequestri di persona e omicidi che restano impuniti. A farne le spese non sono i grandi trafficanti ma tossici e piccoli spacciatori nonché molti innocenti, danni collaterali di quella che è a pieno titolo una guerra di classe che in due anni ha ucciso quasi trentaduemila persone.

Aswang è il nome di una bestia leggendaria che sembra riemersa dalle profondità del tempo per tornare a perseguitare gli abitanti di Manila. Mentre i morti si accumulano negli obitori, il documentario segue le vite di due personaggi diversamente coinvolti in quel che accade: un bambino che attende la scarcerazione della madre detenuta per droga e un fotografo che documenta le scene del crimine prima che la polizia si affretti a cancellare ogni traccia.

Tra gli abitanti della capitale c’è chi prega e chi partecipa a grandi manifestazioni di protesta che però non sembrano scalfire la condotta mostruosa di un presidente che«da quando è venuto a trovarlo Trump si comporta anche peggio del solito». Il film è girato nella notte senza fine di chi, intimidito dalla bestia, è costretto a tenere gli occhi chiusi e a convivere con l’orrore. Arumpac filma invece chi tiene gli occhi aperti e vede ciò che la paura o l’abitudine rende invisibile: chi dorme nelle aree spartitraffico delle grandi direttrici urbane, le sepolture di vittime che nessuno ha reclamato, le discariche a cielo aperto dove giocano bambini resi spietati dalla confidenza con la morte.

MA QUANDO la realtà ottunde i sensi, la finzione può aiutare a rimanere vigili. Per questo, sempre dalle Filippine, We Still Have to Close our Eyes di John Torres utilizza il cinema di genere e il cinema nel cinema per raccontare il suo paese. Filmato in bianco e nero, il corto è ambientato in una Manila futuribile dove il sole si è eclissato e il potere è retto da una dittatura militare che controlla la popolazione con pattuglie di droni. Una banda di cybercriminali ha sviluppato una app con cui riesce a far compiere a persone in carne e ossa scippi e stragi nei karaoke bar. Poliziotti, militari, motociclisti e algoritmi popolano questa distopia che strizza l’occhio al Lav Diaz di The Halt.

TORRES compone il proprio film détournando scene colte sui set altrui: sarà sufficiente l’invenzione a rovesciare tutta la violenza che aggredisce il nostro immaginario? Mentre suona una ninna nanna sintetica più opportuna a conciliare un incubo che un bel sogno, una bambina si sveglia o forse sta per riaddormentarsi: che immagini le stiamo lasciando in eredità? Saprà con le sue fantasticherie difendersi dalla bruttezza?

Gli interrogativi sul nostro futuro incerto si stagliano su tutt’altro orizzonte e con tutt’altra forma cinematografica in diversi titoli presentati nella sezione competitiva francese, come per esempio L’avenir le dira di Pierre Creton. Creton vive in Normandia dove fa l’agricoltore e alla vita contadina ha dedicato opere come Va, Toto! (2017) sul rapporto umano-animale, oppure la trilogia Secteur 545 (2004), Paysage imposé (2006) e Maniquerville (2009) ambientata nella regione del Caux.

IL NUOVO cortometraggio ritrae un padre e un figlio alle prese con la raccolta del lino. Di questi uomini schivi con cui Creton lavora vediamo l’impegno di giorno e di notte sulle trebbiatrici, la fatica delle manovre, i visi induriti dalle incombenze, le braccia e le nuche arse dal sole. I loro gesti sono insostituibili dalle macchine. Al rumore degli attrezzi e agli echi di una radio si sovrappongono brevi scambi di battute tra chi filma e chi è filmato: «Sono due anni che c’è una siccità incredibile. Non sappiamo come faremo». Gli agricoltori si muovono in campi spopolati, distese di pale eoliche, presso cartelloni che denunciano l’inquinamento elettromagnetico. La terra sta soffrendo e urge un cambiamento.

È inevitabile guardare questo cinema del «reale» ricercando avvisaglie o segnali premonitori, come se ci trovassimo al di là di una frontiera e guardassimo il cinema come il ritratto del mondo prima del «distanziamento sociale» e del confinamento, quando ancora si scambiavano strette di mano, si chiacchierava a pochi centimetri di distanza e la precarietà della nostra esistenza su questo pianeta era un’idea presente ma come un sovrappensiero.

Stiamo vivendo quell’avvenire che, come cita il titolo del film di Creton, era incerto e lo è anche di più ora se pensiamo alle aziende agricole che fanno i conti con le ricadute economiche dell’emergenza sanitaria. Il lavoro della terra ricorre curiosamente in numerosi altri film della selezione francese del Réel, forse perché permette di cogliere personaggi in attesa, sospesi tra speranza e paura di fronte a un destino che non controllano.

NE «LA TERRE DE GEVAR» di Qutaiba Barhamji, una coppia di rifugiati siriani in Francia coltiva con il proprio bambino un piccolo appezzamento di terra alla periferia di Reims. Nell’arco di quattro stagioni piantano i semi, costruiscono un barbecue, invitano gli amici, imparano a conoscere i vicini e si confrontano con le intemperanze del clima ma anche con la difficoltà di integrarsi e ripartire in un paese che talvolta li accoglie e altre volte li respinge. Con i primi frutti e la bella stagione, la vita sembra rifiorire ma Gevar non dimentica da dove viene, i suoi sogni e i suoi incubi glielo ricordano ogni notte: lui che ha partecipato alla rivoluzione, che ha sognato una via collettiva al cambiamento, si è dovuto accontentare di una soluzione individuale. Mentre le notizie che arrivano dalla Siria sono sempre più drammatiche, anche l’orto dà i suoi problemi e neppure l’idea di «coltivare il proprio giardino» sembra sufficiente a vivere serenamente.

LA CAMPAGNA è da sempre un luogo dell’immaginario, sospesa tra memoria e utopia, come ne L’âge d’or di Jean-Baptiste Alazard (a cui è andato il Premio del Patrimonio Immateriale attributo dal Ministero della cultura) che filma con pellicola in formato ridotto la vita di alcuni giovani tornati alla terra in Occitania. Coltivano l’uva, fanno il vino, i formaggi, cuciono e la sera fanno musica. Nei loro gesti, nelle loro parole pronunciate a bassa voce tra i fumi dell’alcool emerge la ricerca di una vita ideale ma quest’età dell’oro è presente, passata o a venire?