Gli ultimi dati sul commercio al dettaglio diffusi dall’Istat descrivono una situazione di grave difficoltà per milioni di cittadini a basso reddito. E mettono in allarme gli operatori economici. A giugno 2022 è stata stimata una flessione congiunturale delle vendite sia in valore (-1,1%, nonostante i prezzi più alti) che nelle quantità (-1,8%). E, se per i beni non alimentari il calo riflette il dato generale (diminuzione in valore del 2,2% e in volume del 2,5%), per il cibo, a fronte di una diminuzione nelle quantità, si è registrato un lieve aumento in valore (+0,4%), spiegabile naturalmente con l’aumento dei prezzi. In parte, è quello che viene fuori anche dall’analisi dei dati riferiti al secondo trimestre (+1,1% in valore, -0,3% in volume).

E’ il dato tendenziale, nondimeno, che dà l’idea del deterioramento della situazione sociale del Paese. A giugno 2022 (su base annua), le vendite al dettaglio sono aumentate dell’1,4% in valore e diminuite del 3,8% in volume. Per i beni alimentari parliamo rispettivamente di un +4,5% e di un -4,4%. Significa che le merci costano di più e che sempre più italiani risparmiano, ormai, anche sul cibo. A causa dei rincari e delle bollette sempre più salate, si mangia di meno e male, insomma. E non è quello che si aspettavano gli osservatori specializzati. Almeno per quanto riguarda la congiuntura (mese su mese).
Nel frattempo, la corsa dell’inflazione non si ferma. Nella zona euro, a luglio, c’è stato un nuovo record: 8,9% contro l’8,6% di giugno. In Italia, invece, colpisce principalmente il dato relativo al «carrello della spesa». A luglio, l’inflazione tendenziale (anno su anno) è scesa di un decimo di punto rispetto al dato di giugno (da +8,0% a +7,9%), grazie soprattutto ad un piccolo calo della componente energia. Ma i prodotti alimentari e quelli per la cura della casa e della persona hanno fatto registrare un +9,1%. Non accadeva dal 1984. Prezzi che salgono, salari che restano fermi in un paese con sempre più poveri assoluti (il 10% della popolazione).

Inflazione dal lato dell’offerta, trainata dagli alti costi dell’energia. Un fenomeno che, per il momento, non subisce attenuazione. La guerra va avanti e con essa permangono le tensioni sul gas. La scorsa settimana, complice il timore di nuove decisioni restrittive da parte di Mosca sui flussi del North Stream1, il prezzo del gas naturale è schizzato a 200,40 euro al megawattora (+12,6% rispetto a marzo).

Ecco perché l’autunno fa paura. Si teme per i prezzi e per gli approvvigionamenti. Secondo l’Arera (l’authority italiana per l’energia), in assenza di provvedimenti efficaci del governo, dal 1° ottobre si rischiano aumenti fino al 100% delle tariffe di luce e gas. C’è un problema di speculazione, certo. Ma anche il fatto che l’Italia rimane il terzo acquirente di gas russo al mondo, dopo Cina e Germania (7,2 miliardi di euro da inizio conflitto). Crisi energetica, inflazione, recessione. E’ quello che rischiamo nei prossimi mesi. Per adesso l’economia italiana sta beneficiando degli effetti del «rimbalzo» post-pandemico (eravamo andati troppo sotto nel 2020) e della ripresa del settore delle costruzioni grazie al Superbonus 110%.

Ma, come ha ammonito l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) nei giorni scorsi, un’interruzione delle forniture di gas dalla Russia potrebbe costarci fino a quattro punti di Pil. In questo quadro, intanto, i comportamenti dei consumatori e il sentiment delle imprese non sono da sottovalutare. Farebbe bene a tenerne conto anche la Bce, che vuole combattere l’inflazione da offerta colpendo la domanda (già insufficiente).