All’incontro pubblico romano, tra le pareti del Nuovo Sacher di Nanni Moretti, è arrivata vestita di un bel viola acceso, e i colori sembrano essere la sua passione: non passa mai inosservata, è piccolina eppure quel suo impertinente caschetto bicolore spicca sempre con prepotenza anche nella folla sulla Croisette dove era lo scorso anno, fuori concorso, con Visages, Villages.
Agnés Varda ha novant’anni, è nata in Belgio, a Ixelles, nel 1928, in Francia arriva durante la guerra con la famiglia, e il suo nome si lega alla Nouvelle Vague, unica donna regista del gruppo – cosa che non doveva essere facile. Ma lei non sembra una che si fa spaventare da qualcosa, anzi l’aggettivo che spesso si accompagna al suo nome è «indomita».

Fotografa prima di passare al cinema senza mai frequentare una scuola, narratrice di personaggi di donne che rovesciano i canoni del femminile – Cléo dalla 5 alle 7 (1962), Senza tetto né legge ( 1985) – occhio sensibile sul presente – Les Glaneurs et la glaneuse (2000) – con la capacità di modulare le sue immagini di diverse forme, lo schermo e l’installazione – come la magnifica anima multipla di Les Plages d’Agnès in cui ripercorre la sua vita e il legame speciale con Jacques Demy – Varda è stata anche la prima regista a ricevere quest’anno l’Oscar alla carriera, mentre  Visages, Villages concorreva nella categoria dei documentari.

Nel 1954 gira il suo primo film, La Pointe courte. Racconta: «Il gruppo dei registi Nouvelle Vague a volte mi chiamava ’la rondinella della Nouvelle Vague’ altre ’la nonna della Nouvelle Vague’ perché avevo iniziato prima di loro. Ho girato La Pointe courte, che è stato anche l’esordio di Philippe Noiret, con una piccola troupe, pochi soldi, in bianco e nero e con grande libertà fuori dai teatri di posa. Era un film nouvelle vague prima della Nouvelle Vague. Quando il movimento è esploso mi hanno inclusa nel ’pacchetto’.Ognuno però era diverso, in comune c’era l’appartenenza a una generazione e i budget. Io avevo due vantaggi sugli altri, non ero una teorica e non sapevo nulla di cinema, i miei riferimento erano l’arte, i libri e la vita».

Il montatore di La Pointe Courte è Alain Resnais come lei «Rive Gauche». «Arrivava in bicicletta, davanti a una scena mi parlava di Visconti e della Terra trema, citava Antonioni e Dreyer che per me erano degli sconosciuti. Lui era sbalordito, ma le immagini che io avevo in testa erano piuttosto quelle di Piero della Francesca».
Visages, Villages nasce dall’incontro con JR, reso possibile dalla figlia di Varda, Rosalie che del film è la produttrice. «È venuto a trovarmi nel mio atelier, io sono andata nel suo, abbiamo capito subito che avremmo lavorato insieme. Il nostro è stato un colpo di fulmine professionale, tutti e due condividevamo il desiderio di valorizzare quelle persone che rimangono invisibili a cui invece abbiamo cercato di dare la parola in una condizione di parità. Quando ho fatto Mur Murs negli anni ’80, ero già molto interessata agli artisti che mettono le loro immagini sui muri gratuitamente, per la gente. Ed è quanto fa oggi JR. Tutti hanno capacità d’immaginazione e di invenzione, tra coloro che abbiamo filmato alcuni hanno detto cose magnifiche. Penso all’operaio che incontriamo l’ultimo giorno di lavoro, e di fronte alla pensione si sente come sul bordo di un precipizio. Le sue parole sfuggono a qualsiasi schema di sociologia politica»

Le riprese non hanno seguito un vero e proprio piano di lavorazione, alcuni incontri erano stati organizzati prima ma, e Varda ci tiene a dirlo «per molte cose ci siamo lasciati guidare dal caso. «Per esempio il fatto che la casa di Nathalie Serraute che io amo molto si trovasse vicino a quella del nostro agricoltore è stato fortuito».

 

 

E il montaggio? «Lo abbiamo fatto in due tempi, un po’ mentre giravamo, poi io ho lavorato da sola cinque mesi. Eravamo d’accordo che quello sarebbe stato il mio spazio, la mia cinescrittura. JR è venuto a trovarmi, aveva i suoi suggerimenti. È stato lui a insistere per lasciare la parte dell’incontro mancato con Godard. In un certo senso l’intervento di Godard ha un po’ riorientato l’intera struttura del film, JR diceva che era come se ne avesse scritto la fine insieme a me».