La figura di Beniamino Dal Fabbro, come quella di tanti intellettuali eretici di difficile classificazione, è stata ingiustamente rimossa dall’establishment culturale dei nostri giorni. Nato nel 1910 a Belluno, città che l’autore ribattezzò Villapluvia come il titolo della sua raccolta poetica d’esordio edita da Parenti, scomparso nel 1989 a Milano, Dal Fabbro ha avuto modo di manifestare la propria verve poliedrica e anticonvenzionale dedicandosi alle più svariate attività: fu infatti poeta, narratore, saggista, musicologo (ma avrebbe preferito il termine «melòsofo»), traduttore (a lui si devono pietre miliari come La peste di Camus e Gli incanti di Valéry, oltre a versioni da Rousseau, Flaubert, Baudelaire, Proust, Breton, Supervielle), nonché indiscusso fustigatore dei costumi nazionali. Dopo la pubblicazione del catalogo Beniamino Dal Fabbro, scrittore, curato da Giovanni Grazioli nel 2010, contenente una divertentissima intervista alla compagna Gigliola Beratto, e degli atti del convegno con lo stesso titolo, tenutosi in occasione del centenario della nascita presso la biblioteca di Belluno, curati da Rodolfo Zucco per Olschki nel 2011, era uscita da Aracne nel 2015 l’antologia poetica La luna è vostra, a cura di Carlo Londero, mentre Matilde Biondi aveva riproposto nel 2012 per Aragno il diario Musica e verità, arricchito da alcune lettere inedite.
Personaggio polemico e controverso, contraddistinto da un’eleganza démodée, lo scrittore bellunese si impose soprattutto per le sue prese di posizione radicali verso alcuni «mostri sacri» della musica come Arturo Benedetti Michelangeli e Maria Callas, definiti rispettivamente «mondano e mellifluo carilloneur (…) del gran beghinaggio pianistico» e rappresentante del «gigionismo drammatico». La Callas, sentendosi diffamata da una recensione apparsa sul quotidiano Il Giorno relativa a una sua interpretazione scaligera dell’Anna Bolena, arrivò a intentargli causa, perdendola miseramente. D’altronde le cronache musicali e letterarie di Dal Fabbro abbondano di non sempre giustificate idiosincrasie: basta sfogliare un libello come I poeti e la gloria, pubblicato da Editoriale Contra nel 1965, per rendersi conto che le sue argomentazioni risultano a volte un po’ faziose, anche se sempre dettate da un’indipendenza di giudizio ammirevole. L’intento di Dal Fabbro è quello di stigmatizzare un malcostume artistico e letterario che non solo si è protratto fino ai nostri giorni, ma che ha assunto dimensioni preoccupanti: si legga in tal senso la critica al vetriolo agli esponenti del Corriere della Sera che, ispirati forse dalla «necrologia critica» montaliana, sentenziarono tramite Emilio Cecchi «A caval donato non si guarda in bocca» dopo l’assegnazione del Nobel a Quasimodo.
Dal Fabbro ritagliava e conservava le fotografie di Montale stampate sui giornali aggiungendovi immancabilmente a penna un paio di corna. Durante una lite svoltasi in un locale milanese scagliò un bicchiere contro Quasimodo, reo di aver copiato alcuni versi di Esenin. In un epigramma dedicato a Carlo Bo si legge: «Sempre visse / mai pensò. // Mammona gli disse: / t’amo, pio Bo». Non trovando un esemplare di cartapecora per rilegare i suoi Avvertimenti intorno alla poesia adoperò il diploma di laurea in giurisprudenza. In un altro epigramma, dedicato A sé stesso, scrive sotto un’epigrafe leopardiana: «Ho male al dente / di esser decadente».
Nel suo libro più riuscito, Il crepuscolo del pianoforte, stampato nella collana dei «Saggi» Einaudi nel 1951, l’autore ricostruiva, con dovizia di particolari, la storia articolata di questo strumento, dai primi esemplari di clavicembalo alle performances di Ferruccio Busoni, non omettendo di includere in calce Cinquanta avvertimenti ai giovani pianisti, tra cui il seguente: «Seduti al tuo strumento non s’invecchia, ma si consumano le articolazioni proprie e gli orecchi degli altri». È perciò da salutare con interesse la riproposta a opera dell’Editrice La Mandragora di Etaoin (pp. 264, € 15,00), romanzo che originariamente uscì nel 1971 nella collana «I narratori» di Feltrinelli. Il libro, curato da Antonio Castronuovo e Giovanni Grazioli, presenta in copertina il disegno allestito per l’edizione originale, accantonato in virtù di una scelta grafica redazionale che privilegiava la mera esposizione di titolo e nome dell’autore campeggianti con colori differenti su fondo blu notte.
Il curioso titolo è ricavato, come asserisce lo scrittore in una nota custodita nel Fondo Dal Fabbro, da un «fonismo tipografico», privo di alcun significato, che veniva un tempo ripetuto nel testo di libri e giornali per completare generalmente una riga, essendo le lettere attigue sulla tastiera del linotipista; nel romanzo «assume il valore simbolico di luogo comune concettuale, oppressivo e limitativo, di linguaggio alienato». E, in effetti, tutto il libro risente di una tensione riconducibile alle sperimentazioni linguistiche di quegli anni, con echi da Gadda e Manganelli («Le arti e le lettere, noti elementi disgregatori dei popoli, sono animosamente vilipese e posposte al guardonismo epidemico ed epilettico della calciatura intensiva, alla pugilazione a crepaocchio, alla discanzonatura fonoamplificata, alla gara assassinante dei vichendi» si legge alle pp. 180-181), contaminata con il retaggio patafisico dell’autore, tra i fondatori dell’Institutum Pataphisycum Mediolanense, con inevitabili ripercussioni dall’Oulipo (assiduo frequentatore del Bar Jamaica a Brera, Dal Fabbro caldeggiò le iniziative di Baj e dei nucleari). Il romanzo, incentrato sul potere nefasto della televisione e dei media che sembra anticipare certe tematiche di Popper, è vergato con penna intossicata in un sarcasmo rivolto verso calcio e canzonette, simbolo di un degrado culturale inarrestabile. Il titolo non ebbe all’epoca alcun successo, né in ambito commerciale (alla fine del 1972 erano state vendute appena 850 copie) né in chiave critica, anche se non mancarono apprezzamenti di rilievo, come quello espresso da Prezzolini.
Nella vicenda ricorre insistentemente, oltre al termine cacofonico del titolo, un’aferesi di derivazione blasfema, come una sorta di intercalare che cadenza i monologhi del protagonista, Anadio Biscoda, configurantesi nell’alter ego, non troppo dissimulato, dell’autore, il cui profilo si contrappone a quello del tipografo analfabeta Poliuto Graf. Numerosi sono al riguardo i neologismi disinvolti e impertinenti: edittatori, petroliocrazia, teleciarlanti, cibernepoca, dopocapolavoro, vichendieri. L’esiguità della trama, coniugata a un esercizio metalinguistico dai risvolti bulimici, baroccheggianti, rimanda, nella sua essenzialità a una sorta di blob mediatico che sembra aver irrimediabilmente irretito la psicologia di personaggi che si impongono per i loro tratti grotteschi, hoffmanniani (al narratore tedesco, grande melomane, e forse al gruppo russo di cui faceva parte Zamjatin, si rifanno i Nipoti di Serapione).
Lo humour che contrassegna il canovaccio costituisce una sorta di elemento unificante, sul cui fondo si incidono le sagome disgregate di marionette perdute in una bolla di inconsistenza che ricordano certe figure di Bosch fluttuanti nell’aria. Ma su tutto incombe quest’atmosfera straniante, ritagliata come una cartolina slabbrata di Milano in cui spicca la casa-fungo abitata da Graf, un mondo editoriale che manifesta la propria vanità, la propria incapacità a rapportarsi a una scala effettiva di valori senza necessariamente scadere nelle dinamiche del mero profitto economico. Ieri, ahimè, come oggi.