Gli eroi girano nudi
Intervista Un incontro con il fotografo ucraino in occasione della sua mostra al Madre di Napoli. «L'ironia? Anche il corpo può averne una tutta sua»
Intervista Un incontro con il fotografo ucraino in occasione della sua mostra al Madre di Napoli. «L'ironia? Anche il corpo può averne una tutta sua»
Gli occhi azzurri di lui si specchiano in quelli azzurri di lei. Vita traduce le domande dall’inglese in ucraino, Boris risponde in un inglese di base. Sguardi d’intesa i loro, compagni di vita e di lavoro da oltre vent’anni. Davanti e dietro l’obiettivo ci sono entrambi, ma certamente è Vita ad aver messo da parte la propria personalità per sostenere il marito, Boris Mikhailov (Char’kov, 1938, vive e lavora tra Berlino e la sua città natale) tra i più autorevoli fotografi contemporanei. A distanza di qualche mese dall’inaugurazione della retrospettiva che gli ha dedicato Camera-Centro Italiano per la Fotografia di Torino, Mikhailov è nuovamente nel Belpaese per io non sono io (a cura di Andrea Viliani con Eugenio Viola), prima mostra in un’istituzione pubblica italiana, organizzata dal museo Madre con Incontri internazionali d’arte e Polo museale della Campania, Villa Pignatelli-Casa della fotografia (fino al 1 febbraio).
Lo sguardo esuberante – nonostante il disincanto – ironico e provocatorio caratterizza la cifra espressiva del fotografo ucraino, accompagnandolo in un percorso di svelamento del quotidiano, anche lì dove è presente la messinscena. Fotografare è un modo per analizzare, riflettere e contestare, non solo nelle coordinate spazio-temporali in cui si concentra la sua ricerca artistica – l’Ucraina – anche altrove. A Napoli Mikhailov – come racconta Viliani – ha scattato oltre mille immagini, girovagando all’interno del Madre, ma anche per il Rione Sanità e nei Quartieri Spagnoli. È sempre il direttore del museo a parlare del suo lavoro in termine di «sincerità nella rappresentazione fotografica», «reazione alla storia», «sorrisi e, a volte, urla di vitalità». Gli eroi lasciano il posto agli anti-eroi, o meglio a tutti quei personaggi che non seguono le regole del «perbenismo» sociale e politico. Lui per primo, come appare chiaramente in I am not I, la serie del 1992 che dà il titolo alla mostra e che in patria fu censurata.
Il lavoro di Mikhailov è scomodo, urticante: punta il dito sui reietti, sui senzatetto, sui ragazzini sbandati che sniffano colla, sui lavoratori che fanno il bagno nelle acque inquinate. Protagonisti ai margini di una società che nega l’evidenza, quelli di Case History (1997-98) o, come vediamo in mostra, di Salt Lake (1986), By the ground (1991), Yesterday Sandwich (1972-75). Ritratti rubati o pose studiate, il corpo diventa luogo metaforico, vulnerabile e allo stesso tempo determinato, per uno slittamento dalla sfera individuale alla collettività. È anche una zona di tensioni in cui innocenza e spontaneità sottolineano il profondo malessere sociale. Boris si autorappresenta anche in una chiave apparentemente più leggera, coinvolgendo il suo microcosmo familiare (Football, 2000), ma è soprattutto in I am not I, quando nudo gioca a interpretare pose da atleta del mondo classico, facendo volteggiare un finto pene o una piccola spada, che racconta la chiusura della società a cui appartiene e pure la forzatura di andare oltre la clandestinità e la segretezza. Il nudo viene investito di un ruolo fortemente simbolico, tanto più quando l’inquadratura mette a fuoco soggetti vestiti e denudati (un po’ come fa Manet in Le déjeuner sur l’herbe) e come fa lo stesso Mikhailov nell’ultima sala, omaggio al barocco napoletano, nel mettersi a nudo (l’autoritratto è del 2014) tra due personaggi ritratti nel XVII secolo da Jusepe de Ribera: San Paolo Eremita e Santa Maria Egiziaca. «L’immagine di un corpo invecchiato o dolente, il compianto impudico del suo deformarsi e decadere o della sua macerazione e sofferenza rivendicano una comune volontà di trascendenza di fronte alla corruzione terrena», afferma il curatore Andrea Viliani. Immagini che rimandano a un’idea di disgregazione, corruzione ma anche di redenzione e resistenza.
Il suo interesse per il nudo nasce anche per la valenza contestaria rispetto alla negazione «di stato» del corpo umano?
Era importante stare all’interno della società per avere la possibilità di osservarla, non tanto aggressivamente quanto più energicamente. Il nudo apparteneva solo alla tradizione artistica del passato, Velázquez, Renoir e tanti altri grandi maestri, ma nella contemporaneità non era possibile mostrarlo nella mia società. Avevano tutti paura di farlo. Solo dopo Krusciov c’è stata una minima apertura. Un’altra ragione per cui ho infranto le regole è che nella società sovietica l’idea di bellezza era piuttosto limitata. Ma, come dicevo, non si potevano mostrare foto di nudo in esposizioni o pubblicamente, bisognava farlo di nascosto, magari passandosele sotto il tavolino.
L’ironia è una forma di contestazione?
È stata un aiuto. Non solo io, molti altri artisti sovietici l’hanno utilizzata come parte della reazione nei confronti della società. Con l’ironia è possibile affermare di essere un po’ pazzi. Non per davvero, solo per giocare. Oltre all’ironia c’è anche il kitsch. Potenza, ironia e kitsch danno più valore alla bellezza. In I am not I c’è ironia nei confronti del corpo, della bellezza, degli eroi. Con il crollo dell’Unione Sovietica c’era bisogno di nuovi eroi che fossero diversi dai precedenti. Il capitalismo ha importato dall’America i Rambo. Pum! Pum! Pum!… La società sovietica era bugiarda, ma c’era la vita reale ed era importante fare qualcosa di nuovo dal punto di vista estetico. Nell’era sovietica, poi, anche noi ucraini avevamo perso le tradizioni. Un’interruzione durata cinquant’anni. Avevamo perso anche la composizione, a cui alludo sempre in quella serie fotografica.
Quando è avvenuto il passaggio dalla professione di ingegnere in una fabbrica militare di Char’kov a quella di fotografo?
Non è stato qualcosa di immediato. Avevo paura e, poi, avevo bisogno di mangiare. Del resto, non ero neanche un fotografo professionista, non avevo frequentato una scuola. Ho fatto parallelamente un po’ l’ingegnere e un po’ il fotografo. Non guadagnavo dalla fotografia, ma ho continuato a farlo perché sentivo che era importante, finché anni dopo ho lasciato il lavoro di ingegnere. Inizialmente stampavo le fotografie da me, in camera oscura, poi quando le tecniche di sviluppo e stampa a colori si sono evolute ho cominciato a usare anche quelle.
Quanto è determinante nel suo lavoro la collaborazione di sua moglie Vita, anche lei ingegnere e fotografa?
Sono venticinque anni che lavoriamo collaborando. Siamo stati insieme, ci siamo lasciati più volte, poi ci siamo rimessi insieme e sposati. Vita è presente in molte serie, scatta foto lei stessa ed è anche mia assistente.
In altre interviste ha affermato di aver sempre avuto paura quando fotografava, perché era controllato dal Kgb che faceva puntualmente irruzione nel suo studio. Quali erano le potenzialità che aveva individuato nella fotografia?
Ci può essere sempre qualcuno che mi ferma. Ancora adesso, anche se è cambiato il senso della censura. Allora la società ci guardava, eravamo circondati di spie. Ora non c’è più il Kgb, ma non è possibile fotografare senza chiedere il permesso, soprattutto la gente. Ma io fotografo spesso senza ottenerlo. Quando vedo qualcosa di scomodo, allora fotografo! Così come quando percepisco il pericolo. Magari non succede nulla, ma la percezione di quel qualcosa mi porta a farne uso. Non mi interessa fotografare i buoni o i cattivi, piuttosto è l’atmosfera. Sì, quella tensione in cui qualcosa sta per succedere.
Qualora dovesse attribuire un colore alla paura quale sarebbe?
Potrebbe essere verde.
Nel presente, quali sono i fantasmi della società ucraina che riesce a cogliere con il suo sguardo?
L’oscurità, perché può diventare la cosa più pericolosa. Ovunque.
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