Nonostante la presenza intorno a noi di rifugiati in fuga da persecuzioni religiose e politiche abbia portato a un profluvio di studi sulle diaspore, l’esilio di centinaia di simpatizzanti delle dottrine protestanti dall’Italia dell’Inquisizione all’Europa delle guerre di religione non incontra più l’interesse di un tempo. Basti pensare che nell’utile sintesi sulla mobilità delle minoranze religiose perseguitate nell’età della Riforma e della Controriforma, scritta da Nicholas Terpstra (e ora tradotta dal Mulino), quel gruppo di eretici italiani di formazione umanistica, che rifiutarono di piegare la testa sotto il giogo dell’Inquisizione ma non riconobbero mai nemmeno i nuovi papati messi in piedi dalle Chiese protestanti, compare solo di sfuggita ed è inserito nell’ottica deformante della diaspora calvinista.
Gli eretici italiani del Cinquecento sono finora rimasti ai margini anche dei diaspora studies, ormai diventati un campo di studi a sé, con riviste e cattedre universitarie in tutto il mondo, ma che preferiscono concentrarsi su altri episodi di dispersione di minoranze religiose: soprattutto i marranos e i moriscos, gli ebrei e musulmani spagnoli convertiti al cristianesimo ma costretti a lasciare la loro terra perché sospettati di essere legati ai loro culti precedenti e quindi di essere sudditi infedeli.
È allora sintomatico che il lavoro di sintesi di Mario Biagioni Viaggiatori dell’utopia La Riforma radicale del Cinquecento e le origini del mondo moderno (Carocci «Studi Storici», pp. 248, euro 26,00) non venga dal mondo dell’università, ma da quello della scuola, meno soggetta a mode di pensiero che vanno e vengono e più attenta alla trasmissione di un sapere, come quello umanistico, che è proprio di chi nega l’autorità ma rispetta la tradizione (secondo la definizione di Erwin Panofsky, che i protagonisti di questo libro avrebbero forse sottoscritto).
Quelli inseguiti qui ai quattro angoli d’Europa sono, come dice il titolo, Viaggiatori dell’utopia. Il libro si presenta infatti certamente con una scansione per capitoli su base tematica, dedicati alla nascita della tolleranza (cap. 2), del razionalismo (cap. 3), dell’utopia e della liceità dell’ateismo (4 e 5). Quelli che lo animano sono però esseri umani in carne e ossa (capitolo 1: «uomini in fuga»); maschi, soprattutto, essendo l’esilio una condizione considerata all’epoca poco adatta alle donne, che avrebbero rischiato di perdere il loro onore nel viaggio. Uomini come Bernardino Ochino, predicatore prediletto di Carlo V, che per seguire il suo itinerario religioso finì la sua vita nella povera casa di ciabattini moravi. Oppure uomini come Lelio e Fausto Sozzini, iniziatori di un modo nuovo di vivere la religione, impregnato di razionalismo e tolleranza. Né questo libro include solo gli «eretici italiani del Cinquecento» riportati alla luce da Delio Cantimori in un testo fondamentale del 1939, perché vi trova ampio spazio anche il tedesco Christian Francken, ex-gesuita qui letto come un antesignano del moderno ateismo.
Speriamo che il saggio di Biagioni guadagni alla famiglia di studiosi che lavorano ancora su questi temi – la nobile decaduta della storiografia italiana – nuovi membri. Forse avrebbe aiutato questa operazione un maggiore approfondimento del dialogo proprio con quelle recenti tendenze storiografiche, che hanno ignorato – ignorate – la storia ereticale italiana del Cinquecento. Penso in particolare a uno dei temi cardine del volume: la storia della tolleranza. Il tema viene qui presentato, sulla scia di Antonio Rotondò, maestro di Biagioni e di chiunque studi questi argomenti, come la «storia di una disposizione intellettuale» (p. 230) poi accolta nei codici dei sovrani illuminati. Questa visione, in fondo elitaria, dello sviluppo dell’idea di tolleranza (tolerance) va completata con una maggiore attenzione alle pratiche di coesistenza pacifica (toleration) tra persone di fede diversa che vivevano fianco a fianco nello stesso luogo (al lettore italiano non è ancora disponibile il libro di Benjamin Kaplan, Divided by Faith. Religious Conflict and the Practice of Toleration in Early Modern Europe, uscito una decina di anni fa per la Harvard University Press, che ha rinnovato alla radice questo terreno di studi).
Serve lavorare ancora in questa direzione, perché il caso della diaspora ereticale italiana mostra bene come la mobilità fisica di questi uomini abbia favorito una fortissima mobilità anche dal punto di vista religioso e intellettuale. Se è vero infatti – era la tesi di fondo che percorreva il libro di Cantimori – che la loro formazione umanistica (cioè filologica) li allenava a esercitare il loro spirito critico anche nei confronti di quelle Sacre Scritture che i protestanti avevano messo al centro della vita dei cristiani, tutto quel potenziale non si sarebbe potuto sviluppare senza che l’esperienza dello sradicamento gli facesse da catalizzatore. In che modo? Resta da capirlo, ma ora abbiamo un buon punto di ripartenza.