Primo giorno con le scuole chiuse ieri in Campania. Il governatore Vincenzo De Luca ha disposto 15 giorni di didattica a distanza per cercare di fermare la curva dei contagi. «I ragazzi delle zone periferiche non hanno i mezzi adeguati, a malapena hanno un cellulare obsoleto» racconta Cesare Moreno, presidente dell’associazione Maestri di strada onlus. «Siamo in un’area da 130mila abitanti, San Giovanni, Barra Ponticelli, la zona a più alta dispersione scolastica d’Italia. Facciamo attività con elementari e medie, avevamo in carico 50 ragazzi a rischio dispersione ma durante il lockdown ne abbiamo incrociati 200 che non avevano più contatti con la scuola». A questi ragazzi i maestri di strada hanno portato «i pacchi viveri per la mente»: quaderni, libri, tablet. Hanno avuto così l’occasione di sperimentare una didattica diversa, più laboratoriale e partecipata, avvicinandosi alla scuola invece di allontanarsi.

«IN UN ISTITUTO facciamo il triage all’ingresso – prosegue Moreno -. Controlliamo la temperatura ma anche lo stato d’animo, parliamo con le famiglie, cerchiamo di placare le ansie contenendo l’ondata di aggressività che si sviluppa quando tutti stanno male e nessuno sa cosa fare. A settembre abbiamo fatto un corso di formazione per gli insegnanti per imparare a creare la classe virtuale poiché utilizzavano software unidirezionali invece che interattivi. Le scuole hanno fatto tutto quello che potevano, si sono persino tagliati i banchi da soli per non aspettare quelli del ministero, poi arriva De Luca e chiude tutto, passando come un rullo compressore sugli sforzi di migliaia di insegnanti, lasciando così i bambini soli a razzolare in squallidi cortili. Per rimediare utilizziamo la pedagogia della panchina: andiamo nei cortili per recuperali con attività dotate di senso». Cosa fare adesso? «Abbiamo ripreso i contatti con le 200 famiglie, proporremo scatole di montaggio: materiali e compiti per far fare i laboratori ai ragazzi in casa propria. E poi abbiamo un progetto nuovo I Coronauti: come gli Argonauti solo che la nave per veicolare la formazione prende spunto dal Covid».

DAVANTI IL PALAZZO della regione, ieri e di nuovo stamattina, ci saranno le famiglie e, tra loro, gli attivisti di molte realtà che dalla fine del lockdown hanno appoggiato le proteste di Priorità alla Scuola. «In 15 giorni che misure intende adottare De Luca per riaprire? – si domanda Roberta Moscarelli – altrimenti qualcuno si deve assumere la responsabilità di dire che sta chiudendo le scuole fino ad aprile». I problemi sono rimasti dov’erano a giugno: «Alla riapertura abbiamo trovato una situazione molto frammentata, ogni scuola un mondo a sé. Avevamo chiesto interventi per tutti i bambini, invece nello stesso quartiere ci sono scuole che funzionano e altre che vanno a singhiozzo».

LA FASE 2 È PIÙ DIFFICILE: «Chiudono la scuola ma io adesso devo andare al lavoro. Se mio figlio non si collega risulta assente. Come fanno i genitori, soprattutto quelli che hanno redditi informali? Nelle 2 o 3 settimane che hanno frequentato hanno trovato una scuola dove si parlava di protocolli di sicurezza e pericoli, agli insegnanti è stato detto rinunciate anche a una parte dei contenuti per puntare su regole, disciplina e salute. Abbiamo messo in contrapposizione la sopravvivenza con lo studio e la socialità».

Massimiliano Tortora fa parte dell’associazione Quartieri spagnoli onlus. Si occupa di due attività: l’educativa territoriale e il contrasto alla dispersione scolastica. «Avevamo ripreso i rapporti con i ragazzi, stavamo lavorando con quelli che non avevano effettuato l’iscrizione alle superiori per trovare loro posto nelle scuole. E poi è arrivata la sospensione delle attività in presenza. Si è cercato di lavorare sulla sicurezza nelle aule, qualche istituto ha avuto i banchi ma non sono arrivati altri professori né sono aumentate le aule».

COME INTERVENIRE? «Stiamo pensando, ma abbiamo bisogno delle autorizzazioni, di offrire i nostri spazi e le postazioni Pc per i ragazzi fragili, in modo da accompagnarli nella didattica a distanza. Potrebbero venire in sede a piccoli gruppi. Non si tratta solo di offrire gli strumenti, è più difficile per chi non ha le basi seguire le lezioni a distanza. Lavoriamo su una linea di confine, se arriva una spallata poi è difficile recuperare i percorsi».

Ti ritrovi con un ragazzo che aveva cominciato la prima media da una settimana, elementari fatte male, la madre in attesa del colloquio con l’insegnante per cercare di organizzare il lavoro del figlio, per tenerlo a scuola, e invece salta tutto. «Trasporti, insegnanti, edilizia scolastica, non è cambiato niente rispetto a marzo – conclude Massimiliano -. Non solo non stiamo certo colmando il gap con i coetanei del centro nord, ma stiamo anche facendo passare il messaggio che l’istruzione non è importante».

Giovanni Zoppoli è uno degli educatori del Mammut, il centro di ricerca di Scampia. Dal 1997 hanno elaborano percorsi di «ricerca azione» dentro e fuori le scuole coinvolgendo territorio, educatori, ragazzi. A Napoli lavorano con gli istituti della zona, di Secondigliano, Bagnoli, centro storico, fino al Vomero. «Abbiamo sempre creduto che la scuola si dovesse fare in piccoli gruppi, all’aperto, in relazione con le persone e il territorio, il Covid sembrava un’occasione per inserire questo modello pedagogico in quello tradizionale ma poi è venuto lo stop. Non è stato inaspettato. A Scampia c’era un allarme fortissimo, alcune classi chiuse, ragazzi tenuti a casa per paura del contagio».

E POI CI SONO I LIMITI: «A Bagnoli sperimentiamo i gruppi interclasse: l’idea è che l’alunno non debba essere confinato nella sua piccola comunità in aula ma rapportarsi all’intera scuola e questo non è stato più possibile. Neppure le uscite all’esterno perché i mezzi pubblici sono pochi e affollati, quindi pericolosi. Del resto sono andati a scuole solo 4 giorni: le lezioni sono iniziate ufficialmente dopo le elezioni ma i bagni erano rotti, poi è arrivata l’allerta meteo e infine l’ordinanza della regione». Ma si può imparare a cambiare paradigma: «Con il Covid abbiamo imparato l’importanza delle relazioni interpersonali, di avere uno spazio esterno (che molte scuole non hanno), rapportarsi con il contesto urbano e sociale. E poi che non basta insegnare le materie: noi, ad esempio, lavoriamo molto sui concetti di paura e liberazione, sull’evento incontrollabile. Infine, che è necessario coinvolgere la comunità scolastica nel suo insieme. Ma ci vuole continuità. Lavoriamo nelle pieghe del sistema, non ci aspettiamo soluzioni dall’alto, bisogna continuare a inventare».