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Gli edifici mangerecci da Soldati a Camilleri

Gli edifici mangerecci da Soldati a CamilleriUna tavola dal libro per bambini di Kate Greenaway Apple Pie, 1886

Cibo e letteratura Il risotto gaddiano, la panzanella di Aldo Fabrizi, il candiero di Sciascia... Da un progetto Expo 2015, Skira ha tratto questo «Mangiarsi le parole», volume-repertorio a cura di Luca Clerici

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 10 giugno 2018

Il formato è di 26,8 per 21,6 centimetri, copertina in cartone rigido, fondo bianco, titolo in rosso, sottotitolo in nero, con un disegno di John Alcorn, lo stesso autore di molte delle illustrazioni che accompagnano questo libro che Skira pubblica in omaggio al binomio di cibo e letteratura, Mangiarsi le parole 101 ricette d’autore (pp. 183+XXXI, € 29,00). Un volume perfetto da lasciare su un tavolino basso a disposizione degli ospiti che chiacchierano in attesa di una cena.
Nato in occasione dell’«Expo 2015. Nutrire il pianeta. Energia per la vita», sul progetto di ricerca promosso dall’Università degli studi di Milano, il volume si propone come un ricettario d’autore: ai menù si alternano racconti e intermezzi, alcuni inediti. Il tutto vivacizzato da un gran numero di fotografie provenienti dal Centro APICE, il dovizioso archivio che custodisce e valorizza importanti collezioni bibliografiche e archivistiche del Novecento, uno dei quali è, appunto, il fondo Alcorn. Luca Clerici, tra gli organizzatori del Centro e curatore del volume, firma l’Introduzione e le Istruzioni per l’uso. L’indice propone «Menù alla carta», «Menù a tema» e un ricco album di illustrazioni, copertine di libri, manifesti, prime pagine di giornali, fotografie, riprodotte in carta patinata e inerenti al cibo, al mangiare e agli strumenti utili in cucina. Le più remote sono le illustrazioni dedicate all’Apple Pie (1887, Fondo Wick). Tra le fotografie spiccano quelle delle prime lavastoviglie (svizzere) e quella in cui De Sica, affiancato da Valentino Bompiani e Giacomo Furia sul set de L’oro di Napoli, osserva un pizzaiolo alle prese con un disco di pasta lievitata (1954, Fondo Bompiani).
Moltissimi i personaggi illustri convocati nella cucina dal curatore e messi ai fornelli, tra cui Marinetti, Monelli, Deledda, Ungaretti, Prezzolini, Bontempelli, Soldati, per arrivare a Scheiwiller, Mari, Eco, Perotti. Non potevano mancare il risotto gaddiano, la panzanella di Aldo Fabrizi o gli arancini di Montalbano di Camilleri. Sciascia, dal canto suo, si delizia nella rievocazione del Candiero, il gelato al gelsomino, di cui riprende la ricetta nientemeno che da Lorenzo Magalotti, prosatore squisito e autore delle Lettere odorose, il quale però in quest’occasione si rivela parco di dettagli e assai vago nelle quantità. Talvolta la ricetta è incastonata all’interno di una prova narrativa perfettamente compiuta, così che invece di un semplice prelevamento si è provveduto a una sorta di escissione. E sono questi i casi in cui il momento gastronomico rivela una relazione assolutamente funzionale con il testo che lo ha generato. Tra gli esempi più evidenti quello di Carofiglio: i suoi personaggi si mettono in cucina e si dedicano alla preparazione di cibi semplici e del tutto mediterranei, con il sottofondo di canzoni d’autore conformi a una filosofia di vita e di pensiero quasi zen, in un momento di assoluta concentrazione.
L’idea di base è che tra la parola e il cibo sussista un rapporto biunivoco: la parola è di per sé materia atta alla costruzione di edifici mangerecci, e d’altro canto gli alimenti sono l’alfabeto infinitamente manipolabile e trasformabile, che la sintassi avvicina e cuoce in frasi e periodi; il mangiare dunque altro non è che un modo come un altro per dare un ritmo e un senso al caos del mondo. Tanto è vero che dopo i menù si leggono le «ricette di meditazione», quasi a consentire al lettore, dopo tanti piatti dettagliatamente descritti, una sosta rigeneratrice, una pausa di astinenza quasi monacale.
A rendere ulteriore testimonianza della prossimità tra cibo e letteratura concorre l’opportuno riferimento all’istituzione del primo premio letterario moderno, il Premio Bagutta, nato nel 1926 a opera di un gruppo di amici che si ritrovavano nella trattoria milanese di Alberto Pepoli, in via Bagutta, dove Bacchelli, Vergani, Monelli e altri mangiavano e discutevano di libri.
Il nodo «cibo e cultura letteraria» è ribadito, ove ci fosse bisogno di conferma, anche dalla circostanza che fu Mario Soldati (qui rappresentato con le «Cipolle in salsa») a inventare il giornalismo enogastronomico quando nel ’56, a due soli anni dalla nascita della RAI, ideò e realizzò l’inchiesta televisiva Viaggio lungo la Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini, una dettagliata fotografia degli usi e costumi della cultura popolare italiana. L’acuirsi dell’attenzione nei confronti del cibo riservata oggi dai media è del resto in continuità con una cultura che si mantiene per tutto il Novecento. Tuttavia l’insistere quotidiano su cucina, fornelli e ricette più o meno probabili si presenta come il segno di una opulenza che si è lasciata alle spalle la povertà tipica dell’Italia rurale e preindustriale, e invece insinua un’ombra di sospetto sulle inquietudini e le paure scaturite dalle incertezze dei decenni più vicini a noi. Anche quello del cibo è un linguaggio e che parli di argomenti frivoli o seri, va ascoltato perché comunque in gioco ci sono identità e trasformazioni.

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