Sono ancora fermi lì, tra Humayma e al Sukhnah, i 17 autobus con a bordo 300 miliziani dell’Isis e le loro famiglie che dalla frontiera libanese e il Qalamoun ad occidente, si stavano dirigendo ad AbuKamal, una cittadina a 6 km dal confine con l’Iraq, situata nel distretto orientale di Deir Ezzor. L’esercito siriano ha smentito ieri che una parte degli autobus sia giunta a destinazione. D’altronde i mezzi non potrebbero sfuggire agli aerei americani che, per bloccarli, il 30 agosto hanno bombardato e distrutto la strada che stavano percorrendo verso l’ultima roccaforte del Califfato in Siria, sulla base di un accordo raggiunto con le autorità libanesi e siriane. Con un comunicato la Coalizione anti-Isis a guida Usa ieri ha fatto sapere di «essere in contatto con i russi perché dicano al governo siriano che non permetterà ai miliziani di muoversi verso est». Washington si fa portavoce del disappunto del governo di Baghdad che denuncia di non essere stato consultato e contesta l’accordo che, sostiene, darà il via libera all’ingresso dei 300 jihadisti in Iraq.

Eppure a ben guardare il trasferimento dei miliziani se pone dei rischi potenziali all’Iraq rappresenta prima di tutto un pericolo per la sicurezza della Siria, che invece è presa di mira da Washington e Baghdad. A Deir Ezzor l’Isis è pronto a resistere fino all’ultimo uomo contro l’esercito siriano che avanza in direzione della città dove, peraltro, i jihadisti tengono sotto assedio una guarnigione militare governativa. Trecento combattenti in più dell’Isis a Deir Ezzor non sono pochi.

Beirut e Damasco hanno commesso un grave errore a non aver consultato l’Iraq, tenendo conto anche dell’appoggio che Baghdad ha dato ad Assad in questi anni. Tuttavia l’accaduto è stato ingigantito dagli Usa interessati ad allargare le fratture che stanno emergendo nell’alleanza tra l’Iraq con l’Iran e la Siria. Diversi esponenti sciiti iracheni, politici e religiosi, di recente hanno criticato Hezbollah e Tehran. E uno di questi, l’influente Muqtada Sadr, ha chiesto che Bashar Assad si faccia da parte. Sadr qualche settimana fa si è recato in visita ufficiale in Arabia saudita, la principale potenza sunnita e nemica dichiarata dello Sciismo. Sviluppi accolti con compiacimento da Washington impegnata in una rinnovata campagna contro l’Iran e Hezbollah, con il pieno sostegno di Arabia saudita e Israele.

L’evoluzione della guerra in Siria, largamente favorevole al governo di Damasco e ai suoi alleati, Iran e Hezbollah, e il crollo dell’Isis non sembrano spingere i governi occidentali e i loro alleati arabi a fare i conti con la realtà ed adottare una linea più pragmatica. A inizio settimana il ministro degli esteri francese Jean-Yves Le Drian è tornato a chiedere l’esclusione di Bashar Assad da qualsiasi transizione politica in Siria quando, appena un mese fa, il presidente Macron aveva proclamato che la “rimozione” del leader siriano non è credibile. L’Alto Comitato per i negoziati – la fazione maggioritaria dell’opposizione siriana – da qualche giorno insiste con più forza di prima per l’esclusione immediata di Bashar Assad, probabilmente sotto la presssione del suo sponsor principale, Riyadh. Questi segnali hanno già riflessi sul terreno. A Nord della Siria gli Usa pianificano il consolidamento della loro presenza, approfittando del sostegno militare che offrono ai combattenti curdi impegnati contro l’Isis. Poco più a sud una dozzina di fazioni jihadiste e islamiste finanziate da Turchia e Qatar hanno dato appoggio all’idea di un «esercito nazionale siriano» avanzata all’inizio della settimana dal «governo in esilio» dell’opposizione e dal Consiglio islamico siriano, un organismo religioso creato nel 2014 da Ankara. E nella Siria meridionale la situazione resta fluida.

La vittorie, a caro prezzo, conseguite dai soldati siriani e dai loro alleati contro l’Isis e an Nusra (al Qaeda) difficilmente si riveleranno definitive. D’altronde lo stesso Assad, il mese scorso, aveva parlato di «segni di vittoria» e non di una fine imminente del conflitto. Con la fine del Califfato, i suoi avversari si stanno riorganizzando, con l’aiuto dei rispettivi sponsor occidentali e arabi. In Libano del sud intanto la “modifica” in senso anti-Hezbollah del mandato della forza di interposizione Unifil (Onu) ottenuta da Israele e Stati uniti già mostra i suoi effetti. Il governo Netanyahu ha chiesto che i caschi blu impongano all’esercito libanese, con il quale effettuano i pattugliamenti, la rimozione di un ufficiale che mantiene i contatti con Hezbollah.