Restituire al monumento, vera e propria «attrazione» del sito, la sua valenza archeologica: è questa l’intenzione del libro di Sarah Levin-Richardson Il lupanare di Pompei Sesso, classe e genere ai margini della società romana, tradotto da Maurizio Ginocchi per Carocci editore («Frecce», pp. 336, euro 28,00), che colma una lacuna derivata dal disinteresse verso i reperti – qui, per la prima volta, presi in considerazione nel quadro di una ricerca esaustiva – rinvenuti durante gli scavi ottocenteschi e allo stato attuale non visibili perché «dispersi» nei magazzini del Museo Archeologico di Napoli. Riportato alla luce nel 1862, danneggiato dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale e restaurato tra il 2004 e il 2006 con fondi privati, l’edificio creato ad hoc per l’esercizio della prostituzione costituisce un unicum nel mondo romano. La struttura, ubicata tra il Foro e il principale asse stradale nord-sud dell’antica città vesuviana, si erge su due piani. Esempio paradigmatico con cui confrontare ogni ipotetico «bordello» dell’antichità classica, il postribolo pompeiano assume rilevanza anche nel dibattito su prostituzione, sessualità e arte erotica. Redatto secondo un’impostazione accademica con dettagliate note e due preziose appendici – l’una sulla cronologia degli scavi e dei reperti, l’altra sui graffiti –, il testo risulta accessibile anche ai non specialisti.
La prima parte si concentra sugli aspetti materiali. Malgrado il voyeurismo provocato nei visitatori da affreschi a carattere licenzioso, Levin-Richardson sottolinea come il lupanare appaia al moderno turista un luogo tetro, con celle disadorne e letti spogli. L’obiettivo dell’autrice è dunque rievocare la vivacità di un ambiente che, a discapito dell’esplicita destinazione, rivela un uso più articolato. Una fialetta in vetro per profumo o unguento, una lama di ferro col manico in bronzo e un bacile bronzeo a forma di conchiglia, recuperati al piano terra, suggeriscono la cura del corpo e forse servizi quali la rasatura. La presenza di alcuni bicchieri di vetro indicherebbe, inoltre, l’abitudine delle prostitute (o di un lenone) di bere e conversare con la clientela. Al piano superiore – dove si trovavano stanze decorate con affreschi policromi e dalla ricca varietà di temi, tutte confluenti su una balconata – resti di pasto, gusci di conchiglie verosimilmente utilizzati per contenere cosmetici, un porta-lucerne di bronzo e delle staffe bronzee per suppellettili, ricondurrebbero a uno spazio residenziale. Il lupanare di Pompei non rimanderebbe dunque a un «modello di impresa» fondato esclusivamente sulla prostituzione ma a un tipo di economia flessibile e diversificata. Il capitolo sull’architettura mira, infatti, a mettere in luce le somiglianze tra il lupanare e altri edifici popolari in cui si svolgevano attività quali la ristorazione e l’alloggiamento di ospiti e schiavi (elemento che dovrebbe rendere meno semplicistica l’identificazione di un lupanare). Una fotografia risalente al 1870 attesta che il pian terreno della struttura – ad eccezione del soffitto, probabilmente collassato per il peso dei detriti vulcanici – è sopravvissuto quasi intatto all’eruzione del 79 d.C. Il locale consta di una superficie di appena 46,5 metri quadri ed è suddiviso in cinque piccole stanze flebilmente illuminate da un vasistas e provviste di una piattaforma in muratura, le quali si aprono su un atrio centrale. Gli ingressi sono tre mentre all’intersezione dei due vestiboli si scorge una latrina, nascosta dietro un basso tramezzo e raggiungibile tramite uno scalino.
Nonostante le sue ridotte dimensioni, la disposizione del lupanare era stata progettata per favorire specifici assi visivi e, quindi, concedere uno status privilegiato a determinati «spettatori». Chi entrava dal Vicolo del Lupanare poteva cogliere con lo sguardo tutte le stanze così come l’insieme degli affreschi erotici allineati lungo la sala e posti sopra gli architravi delle porte. Coloro che si avventuravano nel «bordello» dal Vicolo del Balcone dovevano invece accontentarsi di contemplare soltanto tre affreschi su otto. Alle famigerate pitture che hanno decretato la fortuna del lupanare quale luogo di scanzonato pellegrinaggio, Levin-Richardson riserva un approfondito capitolo corredato da tavole a colori. Inizialmente frenati dal contenuto osceno delle immagini, gli studi sugli affreschi ebbero una scossa a metà del Novecento, per poi riprendere vigore negli ultimi decenni grazie allo storico dell’arte John Clarke, il quale rimarca l’importanza della condizione sociale di chi ammirava gli amplessi illustrati sui muri. Applicando i metodi analitici di Clarke, l’autrice indaga i dipinti in relazione all’ambiente fisico del lupanare e alle aspettative sessuali dei Romani. Le teorie elaborate a questo proposito dalla studiosa dell’Università di Washington rappresentano uno dei passaggi più controversi del saggio. Levin-Richardson è infatti persuasa che il selettivo «catalogo» di atti e posizioni sessuali riprodotti negli affreschi e corrispondenti a rapporti «nella norma» avesse lo scopo di facilitare l’eccitazione dei clienti, rimuovendo eventuali ostacoli psichici. Se uno schiavo avesse infatti osservato una scena di penetrazione maschile avrebbe potuto ricordarsi degli abusi subiti a causa del suo disprezzato status.
Il medesimo approccio si riscontra nella seconda parte del libro, dedicata ai clienti del lupanare e, ampliando la prospettiva, alle dinamiche della prostituzione femminile e maschile in ambito romano. In questa sezione vengono evidenziati aspetti quali l’emotività, la propensione «teatrale» di alcune meretrici e lo sfoggio (o sfregio) virile documentato dai graffiti. In particolare, l’ostentazione delle prodezze sessuali dei clienti «firmata» con nomi maschili e usando l’espediente della seconda persona, ha portato a supporre che le iscrizioni inneggianti al fallo venissero incise dalle stesse prostitute. Da quest’ultime – si chiede Levin-Richardson – ci si aspettava dunque una conferma della pretesa virilità? Nel cercare la risposta, l’autrice avanza il paragone con l’odierno sistema di meretricio in Vietnam. Un parallelo audace, che se da una parte affascina per la possibilità di avvicinare il mondo antico al nostro, dall’altra insinua il dubbio che le ricostruzioni siano basate su criteri quantomeno arbitrari. Ciò non inficia tuttavia i meriti del volume, che dimostra come a Pompei si possa e si debba continuare a fare ricerca scientifica sull’esistente e sullo sterminato materiale inedito e di archivio, pur lontano dalle luci della ribalta offerte dalle nuove e «spettacolari» scoperte nella Regio V.