E’ già di per se stesso indicativo che il ponderoso volume di Pierre Dardot e Christian Laval si intitoli “La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista”. Il porre l’accento sulla ”ragione” e sulla “razionalità” ci mette subito sull’avviso che non stiamo parlando di “ideologia”, ma di qualcosa che va molto più in là: stiamo parlando di antropologia e psicologia sociale.

Nella scienza economica, l’antropologia gioca un ruolo assai importante sino a definire una vera e propria antropologia economica, quella dell’homo oeconomicus. Tale concezione si basa sul postulato secondo cui la società umana è atomistica, cioè composta da un insieme di individui singoli che operano sulla base di due ipotesi che ne determinano il comportamento (la psicologia, o meglio, la soggettività): una razionalità strumentale che consente, pur in un contesto di informazione imperfetta e incompleta, di potersempre massimizzare una funzione d’utilità individuale e la validità del principio di mutua indifferenza, secondo cui non si considerano gli effetti che le proprie decisioni economiche possono avere sugli altri.

Il perseguimento del massimo utile definisce così i confini della libertà umana. Un comportamento che, partendo dal presupposto (non dimostrato) che tutti gli esseri umanigodono di pari opportunità (se ciò non avviene, ne sono responsabili le istituzioni collettive) , non persegue la libertà effettiva (quella è già assodata) ma si realizza nella “libertà di scelta” tra fini alternativi.

E’ in questo passaggio – dalla libertà di agire (laissezfaire) alla libertà di scelta –che si attua la mutazione dal liberalismo classico al neoliberalismo contemporaneo. Non è un caso che Dardot e Laval, riguardo alla prima fase, parlino di “uomo imprenditoriale” (cap. 8) per poi soffermarsi, con riferimento ai nostri giorni, al “governo imprenditoriale” (cap. 12). Finché la teoria liberista metteva al centro il tema della libertà economica dell’individuo, oggetto dell’analisi teorica era il rapporto tra individuo e legge, tra individuo e Stato. La libertà del primo si scontrava così con i vincoli sovra-individuali posti dal secondo. Al riguardo il dibattito negli anni ’30 tra von Hayeke von Mises, da un lato, e Langee Lerner, dall’altro, sulla miglior efficienza allocativa del mercato o della pianificazione, è paradigmatico.

E’ in questo passaggio che il pensiero neoliberista si ridefinisce e diventa egemone a partire dalla crisi del keynesismo negli anni ’70 grazie ai contributi dei principali think-thank (che hanno la loro radice nel Convegno Lippmann del 1938: London School of Economics e Scuola di Chicago per l’analisi teorica, Trilateral e Forum di Davos per gli aspetti di governance e policy).

Tale successo si fonda sulla “fabbrica del soggetto neoliberista” (cap. 13). Non più semplice individuo con una sua antropologia naturale (homo oeconomicus) ma “soggetto imprenditoriale” esito di una evoluzione antropologica che porta al “divenir impresa dell’uomo”.

Il rapporto tra individuo e legge e tra individuo e Stato viene superato nel nome del mercato come organizzazione sovra-individuale al cui interno i desiderata individuali possono realizzarsi a patto di accettare una nuova razionalità soggettiva auto-imprenditoriale.

E’ per questo che sia lo Stato, con tutte le sue varie articolazioni, che la Legge non definiscono più i confinidel laissezfaire, ma ne diventano funzionali e subalterni oltre che amplificatori culturali. Il diritto del lavoro tende a scomparire nell’alveo di un diritto privato che riconosce sempre più il primato dell’individualismo sull’individualità. La politica economica, sia monetaria che fiscale, viene ridotta ai minimi termini e diventa ancillare ai diktat di mercato. La Banca Centrale, ad esempio, tanto più diventa autonoma dalla possibilità di svolgere scelte discrezionali (quindi di governance politica sociale) tanto più è subordinata alle dinamiche delle gerarchie di mercato.

Tale governance neoliberista, che si attua a livello globale, ha come strumento di ricatto e di consenso il processo di finanziarizzazione. Uno strumento che per essere efficace richiede che gli ambiti decisionali “liberi e democratici” siano il più possibile controllati e contenuti. Occorre quindi uno “Stato minimo” a livello economico in copresenza con uno “Stato massimo” a livello politico-decisionale (soprattutto in tempi di crisi).La razionalità del neoliberalismo è tutta qui: una governance delle soggettività imprenditoriali che sono dentro di noinon dettata da dispositivi esterni o giuridici ma alimentata dagli stessi soggetti. L’illusione di poter scegliere si tramuta così nella supina accettazione della propria miserevole condizione.

La crisi finanziaria mostra l’irrazionalità della presunta razionalità neoliberista. Non solo perché la governance finanziaria risulta strutturalmente instabile o perché l’adozione pervicace e “stupida” delle politiche neoliberiste (privatizzazioni, austerity) peggiora ulteriormente la già critica situazione. Ma soprattutto perché il soggetto imprenditoriale si scopre nudo e impotente, rubato della sua individualità.

Vi sarebbero oggi tutte le condizioni per sviluppare una”resistenza alla governamentalità neoliberista” (p. 489), a patto però che non si cada nell’”illusione che il soggetto alternativo possa essere, in un modo o nell’altro, «già qui»” (p. 487). Tale soggetto, ieri classe oggi divenuto disperso nella precarietà del lavoro vivo, a torto o a ragione considerato dal pensiero marxista e alternativo la leva per trasformare il mondo, deve fare i conti con la soggettività neoliberista. Ed è in questa dimensione che occorre continuare quel “processo di soggettivazione” che pone il conflitto al suo giusto livello.