Nel romanzo Giuè (Ferrari editore, pp. 148, euro 15), Antonella Perrotta distilla una fiaba giudiziaria ricca di grovigli e tensione, partendo da un fatto realmente accaduto e mai risolto, tra disperazione e speranza. Sfondo è Paola, nel cosentino, durante gli anni Venti del secolo scorso, tumultuosi e cruenti, quando si fronteggiavano socialisti e popolari.

DA UNA PARTE, le Leghe rosse e le Camere del Lavoro cosentine che si rifacevano al massimalismo di Pietro Mancini. Dall’altra, il sacerdote Carlo De Cardona fondò le Leghe del Lavoro, dette poi Leghe bianche, e le Casse Rurali, tutte d’orientamento cattolico le quali nel 1919 avrebbero sostenuto il nascente Partito Popolare di don Luigi Sturzo. La mattina del primo maggio 1920, i socialisti e i radicalmassoni paolani avevano celebrato la Festa del lavoro. In un comizio in piazza, Pietro Mancini sferrò un duro attacco contro la locale Giunta clericale. Risentiti, i Popolari, anticipando la loro manifestazione prevista per il giorno seguente, organizzarono una marcia di risposta senza autorizzazione. Nacquero degli scontri.

D’IMPROVVISO dopo una fitta sassaiola contro i manifestanti, si unirono spari d’arma da fuoco. Nicola De Seta, che portava la bandiera bianca dei popolari, fu ferito gravemente; cercò scampo risalendo per il corso Garibaldi ma crollò dopo pochi passi, in prossimità della chiesa di San Giacomo, dove fu aggredito e ferito al collo con un colpo di rasoio. Nella notte vi furono 15 arrestati, poi tutti scagionati. La Camera del Lavoro di Cosenza proclamò uno sciopero di 24 ore e i ferrovieri del Paolano per tre giorni si astennero dal lavoro. Il processo si svolse nel capoluogo bruzio tra il 1921 e 1922. Ma fu avvolto sempre da un velo scuro che non consentì di appurare mai la verità.

ANTONELLA PERROTTA sceglie una miscela di finzione e realtà cercando di dare nomi, volti e circostanze al caso De Seta. E ci riesce. Ne vien fuori un libro sulla «giustizia mancata», sull’ipocrisia politica e sociale, sul compromesso, il peso della verità e della libertà di pensiero.

Come recita il titolo, il protagonista è Giuè, un contadino dedito alla fatica, ai sacrifici e al coraggio. Ignorando molte delle cose che gli accadono intorno, il primo maggio del 1920 vede la sua vita cambiare di colpo. Si ritroverà infatti inchiodato a un destino che lo trasformerà presto in perfetto capro espiatorio.

GIUÈ, che viveva solo per il suo podere e per la sua famiglia (la moglie lo definisce isola proprio per la sua attitudine misantropica), si troverà suo malgrado dentro territori politici a lui sconosciuti. Eppure sarà proprio questa persona mite e taciturna la vittima sacrificale attraverso cui si metterà fine alla battaglia tra socialisti e popolari del Tirreno cosentino. Giuè non è un eroe né un buon selvaggio, è solo l’individuo più debole del sistema, l’elemento da manipolare in un contesto storico alimentato da povertà e precarietà.

Un romanzo d’impronta kafkiana in cui la storia del contadino riservato e disimpegnato si trasforma in potente analisi dell’ipocrisia, della giustizia ingiusta, dell’indifferenza. Ma anche della capacità di reagire all’imprevisto. Una fruttuosa commistione tra realtà e fiction, per un libro ambientato nel tumulto del primo dopoguerra.