Esiste un Matisse ‘anteriore’: nordico, grigio, ottocentesco. A ricordarlo è stata, nell’inverno trascorso (si è chiusa il 9 febbraio), la mostra, di sommo interesse, Devenir Matisse Ce que les Maîtres ont de meilleur. 1890-1911, curata da Patrice Deparpe per il museo dipartimentale di Cateau-Cambrésis, che porta il nome del figlio prediletto a cui il paesino dell’Alta Francia diede i natali il 31 dicembre 1869. Della mostra, organizzata per i 150 anni dalla nascita, resta un ottimo catalogo, pubblicato da Silvana Editoriale (pp. 368, euro 45,00, bilingue: francese e inglese), che vale come titolo necessario di una bibliografia non così vasta sull’argomento: la trattazione più circostanziata risale al 1998: The Unknown Matisse 1869-1908, Penguin Books, primo dei due volumi della biografia scritta da Hilary Spurling.
Nei negozi di anticaglie
Ragazzino, Matisse fece presto esperienza del ‘decorativo’. Bohain, dove la famiglia era andata a vivere, si distingueva per la tessitura, nel genere degli scialli indiani: ogni casa contadina dei villaggi intorno aveva, accanto alla mucca e alla greppia, il suo telaio Jacquard. È il nucleo primigenio del ‘modo di vedere’ dell’artista, che più tardi troverà sponda nelle arti applicate mussulmane o giapponesi? Un’altra scena, intermedia: nei primi tempi parigini Matisse, che vorrebbe collezionare ma è al verde, ama ravanare nelle botteghe di anticaglie: frammenti di ceramiche, brandelli di arazzi… ne fa il suo «piccolo museo di campioni».
Se è elettrizzante sorprendere i maestri che verranno nei loro primi passi, cercarvi le larve degli sviluppi futuri, nel caso di Matisse lo è doppiamente, per le circostanze così particolari che determinarono il suo svegliarsi all’immagine, piuttosto tardo. Quel che di norma occorre nell’adolescenza, cade per lui a 21 anni, quando, come è risaputo, un’appendicite lo costringe a letto diverse settimane (la sua salute, assai cagionevole), e la madre, per occuparlo, gli regala la fatidica scatola di colori, con cui realizza dei chromos. Lo spostamento in avanti delle tappe di formazione determinerà un gap generazionale rispetto ai compagni di studio e militanza (Marquet, l’amico-fratello, minore di sei anni; Derain persino di undici), ciò che, insieme a indubbi aspetti caratteriali, imporrà alla sua figura già da giovane la celebre veste «dottorale» che tutte le testimonianze rimarcano. Certe goliardie, passatempi cretini come tirare ai malcapitati con la cerbottana dall’alto dell’appartamento parigino al 19 di quai Saint-Michel (vi si installò nel 1894, vi restò fino al 1908, ci tornerà nel ’14) appaiono in Matisse una specie di evasione fumista dal peso di una maturità compressa.
Senza un soldo e due figli
Pur conosciuto e notato, non aveva un soldo, e già due figli, quando nel luglio 1900 si trovò costretto, insieme a Marquet, a decorare fregi per il Grand Palais, un tot l’ora: non a 21 anni, ma a 31! Risultano dunque sbalorditive, alla luce di questo squilibrio, e anche fatta la tara degli appoggi che riceveva a cominciare dai maestri Moreau e Carrière, la persuasione di sé, la ferrea volontà di proiettarsi nella terra di nessuno, di intraprendere «questo viaggio rischioso alla scoperta della personalità» (Apollinaire).
Storicamente, la critica matissiana non sembra aver dato il giusto peso alle implicazioni sull’opera di questo avvio discretamente drammatico; al modo in cui la decisa reazione alle disdette, giustificata da una specie di demone socratico, possa avere inciso sullo spirito di ricerca. Si considerano troppo poco le condizioni materiali degli artisti, anche quando non mancano, e magari abbondano, documenti in proposito. In una conversazione del 1925, Matisse non esclude che la maniera di Marquet possa essere stata favorita dalla povertà in cui versava, che impedendogli di accedere a certi colori costosi, soprattutto il cadmio, lo costringeva a dipingere in grigio. Fare di necessità virtù non era, al contrario, l’ottica di Matisse: in lui la gravità del vivere ha agito piuttosto come sfida, stimolo di contrasto. «La vita è corta. Senza fastidi passerebbe troppo in fretta e non avremmo fatto progressi», ha detto, nel 1953, a Francis Carco.
Osserviamo. Alla fine del 1902 Matisse e la moglie Amélie subiscono un terribile rovescio economico, dovuto alle implicazioni della famiglia di lei, che li sorreggeva, nello scandalo Humbert. Insieme ai figli divenuti tre (la prima, Marguerite, nata a Henri da un’altra relazione), sono obbligati a lasciare Parigi per riparare a Bohain. Il pittore, ormai riconosciuto colorista d’avanguardia, vende poco e si vede obbligato a realizzare tele più commestibili, per esempio, citata da Patrice Deparpe nel saggio iniziale di Devenir Matisse, Le mousquetaire oggi al MoMA. Ma, poteva durare?
Proprio in questo periodo cade l’‘incontro’ con le Jeunes e le Vielles di Goya al museo di Lille: decisivo. Ancora nel giugno 1904, da Vollard, Matisse presenta, fra l’altro, alcune nature morte vendibili, e in parte vendute. L’estate la trascorre a Saint-Tropez, al lavoro con Signac e Cross: è il passaggio divisionista di Matisse, che culmina nell’opera-cerniera Luxe, calme et volupté. Ha ancora tra le riserve qualcuna delle nature morte più ‘classiche’, ma a questo punto decide di distruggerle, votandosi, come scrive Deparpe, a «un punto di non ritorno».
Matisse può rinnegare solo queste opere estroflesse, concepite per ragioni altre rispetto al suo categorico credo stilistico, derogando per una volta a quel principio di fedeltà verso se stesso, che ha ribadito a più riprese. «Si è in tutto ciò che si fa, nelle prime tele come nelle ultime», dice a Pierre Courthion in quei bavardages conservati al Getty Research Institute, che, pur consultati nel tempo da vari critici matissiani, sono stati pubblicati solo nel 2013, a cura di Serge Guilbaut (in italiano, Skira 2015, titolo L’intervista perduta): frequenti, qui, i brani dedicati alla giovinezza, di cui si servono in vari affondi tematici i saggisti del catalogo di Cateau.
La prima opera, in soffitta
Si è in tutto ciò che si fa: verso il 1900, ritrovando nella soffitta della casa di famiglia il suo primo quadro, di dieci anni prima, Matisse si rese conto, riflettendo, che la sua «personalità» era già tutta intera in quella natura morta (oggi al Musée Matisse di Nizza), dove i libri di diritto, presto rifiutati, si presentano, in pila, con tutta la corposità sombre che egli avrebbe apprezzato, al Louvre, nelle tele del Seicento olandese. La continuità storica Matisse la rispetta nel corpus delle sue opere così come nel succedersi delle generazioni, ed effettivamente la sua produzione fino a circa il 1897 costituisce un affascinante insieme ‘ottocentesco’, che richiama il meglio del ‘pittorico’ prodotto da quel secolo in Francia. Se non si sottrasse al confronto, seppure critico, con le vessatorie pratiche accademiche, come documentano i disegni dall’Antico, fu nei maestri del Louvre, esattamente come Manet e Fantin (e diversamente da Pissarro e Monet), che cercò la liberazione del suo temperamento. Ma se i Goya di Lille costituiranno, nel 1903, l’incoraggiamento a ‘rompere’ in via definitiva, non si può dire lo stesso per i ‘classici’ verso cui lo spingevano, all’École des Beaux-Arts, gli illuminati consigli del professor Moreau. Matisse copia Chardin con la stessa devozione ‘dialettica’ di Manet verso Hals.
In questa pratica di copista, sulla cui importanza formativa nell’esperienza del nuovo non si insisterà mai abbastanza (cfr. in catalogo i saggi di Deparpe, Marine Roux, Thomas Wierzbinsky, Anne Coron), Matisse realizza un’antologia disparata, ma i modelli più prossimi li trova negli olandesi (de Heem, Ruysdael, van der Heyden) e soprattutto in Chardin, di cui realizza quattro d’après, due dei quali, La Pourvoyeuse e La Raie, costituiranno, con le loro ‘riprese’ nel tempo, una specie di palinsesto dei suoi progressi tra fine Otto e inizio Novecento. Qui Chardin non è più l’alchimista tonale che disorientava Diderot: perde in termini di «valori» per diventare un colorista come… Matisse.
Volta a volta, un modello
Nessuna angoscia dell’influenza! Il giovane Matisse si appoggia di volta in volta a un modello, per saggiare i termini a lui più convenienti. Non può essere insensibile a Corot, ora dialoga con Daumier, ora con Manet, in due opere del 1895 sembra plagiare Fantin, un tableautin pungente come Bussy peignant dans l’atelier de Matisse, dell’anno dopo, ricorda singolarmente il Degas del doppio ritratto degli amici incisori Desboutin & Lepic, 1876-’77. In generale, come testimonia il condiscepolo da Moreau Evenepoel, Matisse in questa stagione è «pittore delicato, esperto nell’arte dei grigi».
Proprio quel che in un primo momento lo attirò della Bretagna: «la sua luce – scrive in una lettera – è particolarmente argentata e i suoi cieli sono di madreperla», ciò che gli consente, come dichiarerà a Courthion, di «far cantare le luci in un’armonia sorda, di graduare e serrare al meglio i valori»: opere finemente desaturate, di ispirazione regionale, il villaggio, la filatrice, il tessitore, la bettola, i pesci, l’astice, la marina, la piccola bretone… In Bretagna si reca una prima volta nell’estate del 1895, insieme al pittore, suo vicino di casa a Parigi, Emile Wéry. Spenta e argentata, eppure è la stessa Bretagna che, già a partire dal secondo viaggio (1896), ma soprattutto nel terzo (1897), entrambi con destinazione Belle-Île, segna in Matisse la svolta cromatica, di stampo impressionista, favorita dal pittore australiano John Russell: come spiega nel modo più dettagliato il saggio di Dominique Szymusiak.
Ma prima di focalizzare sulla svolta 1897 di Belle-Île, e concludere (perché il seguito fino al 1911, come da catalogo, risulta certo più risaputo: compreso il confronto sperimentale con la scultura di Rodin), vediamo… sono venuti sotto la penna i nomi di Bussy, Evenepoel, Russell: chi sono questi ‘sconosciuti’ che nei saggi su Matisse meritano appena la citazione referenziale? La critica dei grandi maestri comporterebbe il recupero ‘baudelairiano’ di presenze, intorno a loro, inghiottite dal Tempo e dalla Noia, e che tuttavia furono davvero presenze, come, nel caso specifico, appare chiaro dai documenti d’epoca e dai ricordi dello stesso Matisse: «Perché dell’uomo si tratta, nella sua presenza umana…» (Saint-John Perse, nell’epigrafe scelta da Aragon per il suo «romanzo» di Matisse).

Henri Matisse, “Bussy peignant dans l’atelier de Matisse”, 1896, coll. priv.

 

L’atelier di Moreau… recuperare ‘al vivo’, con tutti gli specifici didattici, psicologici, di costume, l’odore della trementina e della biancheria non lavata, la giornata degli allievi: tra i quali Matisse aveva per compagni non solo il ‘co-protagonista’ Rouault e i ‘comprimari’ Marquet, Camoin, Manguin, insieme ai quali conquisterà nel 1905 la pubblica scena con la cage aux Fauves, ma anche, per esempio, gli ‘sconosciuti’ Simon Bussy e Henri Evenepoel.
Su entrambi questi pittori esiste una bibliografia, non manca un appoggio per entrare nel loro mondo: ma chi furono rispetto al Matisse degli anni di formazione? Courthion, nell’Intervista perduta, chiede all’artista dei suoi antichi camarades, ed egli non si dimentica di Bussy e Evenepoel.
Il primo gli restò amico tutta la vita: moriranno lo stesso anno, 1954. Nel 1898, forte dell’apprendistato da Moreau, si mise sotto Whistler: maestro non altrettanto stimolante, ma già indica la deviazione di Bussy, che diventerà «il più inglese dei pittori francesi» (George Besson), il ritrattista vellutato della Gentry e delle bestie dello zoo di Londra. Bussy ricorda, quando erano studenti, l’autorevolezza di Matisse: metteva una sua natura morta in mezzo allo studio e diceva «Guardate come illumina la stanza!». All’inizio del Novecento, dopo un viaggio a Londra, sposando la sorella del saggista ‘in miniatura’ Lytton Strachey, egli divenne intrinseco del circolo di Bloomsbury, di cui realizza una specie di succursale francese nella sua villa di sogno fra gli agrumi, «La Souco», a Roquebrune-Cap-Martin, Terra mentonasca. Qui gli scapestrati d’oltre Manica vengono a mischiarsi con gli scrittori della «NRF», Gide, Valéry, Martin du Gard: tutti ritratti dal padrone di casa; capita Berenson, giungono spesso i pittori amici della prima ora, Rouault e Matisse. Matisse fa scuola per Vanessa Bell e Duncan Grant, il boy Grant allievo di Bussy.
Un belga a Parigi
Quanto a Evenepoel: belga a Parigi, sarebbe diventato un numero uno, soprattutto come ritrattista, ma morì giovane, 27 anni, nel 1899. Bisogna leggere le sue Lettres a mon père, pubblicate a Bruxelles nel 1994. L’opera che ha lasciato rivela un fisionomista ardimentoso, ‘tagliato’, simile a Lautrec di cui fu amico, e un colorista sensibile, che Matisse, nei suoi ricordi, vede intento a ricavare «una poltiglia grigia» dai resti della sua tavolozza alla fine della lezione: «una bruttura», dice, ma «i colori vivaci che applicava su questo grigio sporco vibravano comunque». Calza con il ritratto un po’ nabi che Evenepoel fece alla petite Matisse, Marguerite, nel 1896: glielo regalò, macchia bianca a puntini azzurri, testolina dorata, fondo troppo neutro. Di Evenepoel è transitata di recente, in un’asta belga, un’accademia maschile, dalle tinte terrose, in tutto simile a una di Matisse, dello stesso momento, esposta a Cateau; idem per due accademie di vecchio: confronti che documentano, più che la singola personalità, un sentire comune, un voler fare pittura giovane, energico, vorace di passato e di futuro, fuori dalle pastoie pompier.
L’immagine-civetta della mostra di Cateau, una fotografia dell’ottobre 1897, dà tutto il senso di questa atmosfera sperimentale: Matisse, un po’ dandy, nell’atelier ‘al lavoro’ di Evenepoel, circondato dalle opere dell’amico come se fossero le sue. Le suggestioni transitano da un atelier all’altro, per esempio attraverso la pratica, su cui aveva insistito van Gogh, di regalarsi tele o disegni a scopo di confronto. Questo mettere in comune i personali avanzamenti sarà davvero decisivo, del resto, nel generarsi del fauvismo, quando la scena si sposta all’Académie Carrière e si aggiunge nella vita di Matisse una pleiade di nuovi compagni, fra cui Derain.

Henri Matisse nell’atelier parigino di Henri Evenepoel, ottobre 1897

 

Il terzo ‘sconosciuto’: John-Peter Russell. Come Daniel de Monfreid, che più tardi, 1905, rivelerà a Matisse il Gauguin oceanico, Russell è una figura-ponte. Nato a Sidney, venuto a Parigi e rifugiatosi poi a Belle-Île, in un paesino sulla punta meridionale, la più barbara e tempestosa, Russell era stato amico di van Gogh (conosciuto nello studio di Cormon). Questi ne parla, accomunandolo a Gauguin, come di una «persona rustica; non selvaggia, ma con una certa innata dolcezza di campi lontani…». Di van Gogh, Russell possedeva una dozzina di disegni: due ne regalò a Matisse. Ma la scena-madre della sua vita sono le giornate passate a Belle-Île accanto a Monet, quando questi, autunno 1886, realizzò quelle marine a strapiombo, dai colori prismatici tormentosamente frazionati per rendere al meglio la friabilità delle rocce scistose e lo spumeggiare delle onde, che ‘aprivano’, nel suo percorso, alla pratica dei «cicli» atmosferici.

John-Peter Russell, il generoso
Nella gara che dieci anni dopo ingaggia con queste marine, interpretate già distaccandosene, a tocchi larghi di colore puro e pezzi di preparazione bianca ‘a vista’, Matisse si lascia alle spalle la sua formazione «in grigio»: decisiva la mediazione di Russell, il generoso che «dà in escandescenze» e «dice cose vere» (van Gogh). Collezionava le opere dei suoi grandi amici nella casa con terrazzo sull’Oceano. Voleva destinarle a un museo australiano mai nato: fra queste, certo non mancava almeno un esempio dei Monet di Belle-Île che tanto colpirono Matisse.
Ma, quando Matisse scoprì l’impressionismo? Torna la domanda… Dominique Fourcade, nella sua storica antologia matissiana Ecrits et propos sur l’art (1972, ed. ital. Einaudi ’79), notò come su questo punto le stesse testimonianze del pittore non concordino: fu nella primavera 1897, con l’esposizione al Luxembourg del lascito Caillebotte? oppure prima, nelle gallerie di rue Laffitte? In un testo del 1945 Matisse ricorda che mentre i pittori della sua generazione andavano da Durand-Ruel per vedere soprattutto El Greco, Rembrandt, Goya, lui fu attirato, lì, da due nature morte di Cézanne… Resta comunque abbastanza sorprendente che la tavolozza impressionista abbia cominciato ad agire sulla sua opera solo all’età, ancora una volta decisamente ritardata, di 27-28 anni: a partire di qui, subito la scoperta della luce mediterranea in Corsica, poi, da Vollard, «i colori della carne nel verde della vegetazione»: l’acquisto delle Tre bagnanti di Cézanne… un’accelerazione verso il ‘solare’ e il ‘moderno’ che piano piano mette fuori causa – un po’ troppo – il nordico, il grigio, l’ottocentesco Matisse.