Visioni

Gli anni ’30 di Gil Shaham

Gli anni ’30 di Gil ShahamAntonio Pappano e Gil shaham – foto Musacchio e Iannello

Intervista Parla il violinista americano ma cresciuto in Israele, solista in un concerto diretto da Antonio Pappano oggi e per tre appuntamenti all'Auditorium Parco della Musica di Roma,

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 16 gennaio 2016

Anche se nel panorama internazionale non mancano i fuoriclasse del violino, Gil Shaham è per molti versi un caso a sé. Carriera fulminea e strepitosa, iniziata da subito ai massimi livelli (la prima volta con la Israel Philharmonic a undici, anni, il debutto alla Scala a sedici, a Londra a diciotto) Shaham, nato in Illinois e cresciuto in Israele, è un musicista che ha mostrato da subito un’individualità e una sensibilità che, unite a uno speciale calore umano insito in ogni sua esecuzione, ne hanno fatto ovunque un beniamino del pubblico. La tecnica impeccabile, pur ammirevole, c’entra poco, mentre è il coinvolgimento umano a colpire, per come Shaham riesce ad affidarlo alle note del suo strumento. Allo stesso modo trasmette un calore e una dolcezza quasi adolescenziale anche nello sguardo e nel modo di parlare.

«Ogni volta che vengo a Roma – riflette – mi domando perché non porto qui la mia famiglia e non mi fermo un po’ di più. In verità poi non posso quasi mai. Però – confessa – sono felicissimo di tornare, perché ho già suonato con l’Orchestra di Santa Cecilia e ho lavorato in varie occasioni con Pappano, ma è la prima volta che suono con Tony e la sua orchestra a Roma». E poi – aggiunge – «con il concerto di Barber!».

Qui Shaham si infiamma, raccontando come questo concerto – che eseguirà accanto a musiche di Bernstein e Adams a Roma, nel programma Born in the Usa, con l’Accademia di Santa Cecilia, da stasera e per tre concerti (ore 18, repliche lunedì 18 ore 20.30 e martedì 19 ore 19.30, Auditorium Parco della Musica)- sia uno di quelli che cattura alla perfezione lo spirito di un’intera epoca. «Gli anni Trenta sono stati un decennio di enormi difficoltà – ricorda il violinista – negli Usa c’era la Grande Depressione, in Europa un clima politico terribile, eppure è stato anche un periodo di enorme fertilità musicale: per questo anni fa ho voluto creare un progetto di concerti e di incisioni che includesse musiche di quel decennio, con le loro similitudini e differenze. È anche – sottolinea ridendo – un’occasione perfetta per suonare solo musica che amo, un vero privilegio».

Per Shaham il concerto di Barber è a ragione definito il «grande concerto americano per violino». «Mi ricordo da ragazzo – racconta – a quindici anni, come fui conquistato dallo sviluppo della melodia che apre il primo movimento. Mi dissi subito che quella era la musica che volevo suonare e in effetti credo che già due anni dopo l’avevo in repertorio».

Fra i ricordi di Shaham un concerto, pochi anni fa a Tangelwood, la sede estiva della Boston Symphony Orchestra, con John Williams, il compositore di tante colonne sonore, che è – non tutti lo ricordano – anche un valente direttore d’orchestra: «Durante le prove guardavamo insieme la partitura e John era semplicemente incantato dalla qualità strepitosa della scrittura di Barber. L’ultimo movimento in particolare – aggiunge – ci presenta i suoni delle grandi città americane degli anni Trenta, la loro attività frenetica, le poliritmie del jazz, il traffico di New York, si sente persino una sirena della polizia che riecheggia lungo una grande arteria stradale» Shaham accenna un motivo a mezza voce e poi continua: «anche il contrasto con i due movimenti precedenti è interessante, perché quelli sembrano raccontare un’America pastorale, dalle ampie distese tranquille, con il canto malinconico dei lavoratori delle campagne evocato dallo splendido assolo dell’oboe all’inizio del secondo movimento».

«E forse proprio questo contrasto – ricorda – con quell’ultimo movimento che non ha nulla del virtuosismo un po’ sfacciato di altri finali, fece infuriare il violinista che aveva commissionato il pezzo. Tanto che alla fine non volle suonarlo: ne nacque una grande lite, eppure alla fine il pezzo ha ottenuto il successo che merita».

Accanto a un vasto repertorio, da Mozart a Messiaen, da Brahms a Bach, ultimo grande traguardo che Shaham ha raggiunto dopo anni di esitazione, il violinista americano suona spesso alcuni lavori contemporanei a lui dedicati: «sono stato fortunato – ammette – ho intorno a me dei compositori bravissimi, spesso sono anche amici, che hanno voluto scrivere per me, ed è un onore e una gioia per me». Tenta una lista: «i pezzi di Avner Dorman, di David Bruce, di Brith Sheng, mi piacciono tutti moltissimo, e non dimentichiamo il concerto di John Williams, che suonerò di nuovo anche quest’anno».

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