In molte persone c’è un’immagine che si staglia nitida nel paesaggio di quel mondo altro che torniamo a visitare così spesso, e che abbiamo imparato a chiamare memoria. Ad un certo punto, da soli o in compagnia di una persona per noi speciale – un nonno, un genitore, un amico, un fratello o una sorella – si va spalancando innanzi ai nostri occhi una figura solida come la roccia e alta come un grande dinosauro che credevamo estinto: è altissimo, vastissimo, il tronco rugoso, come il viso di un mostro, ricoperto di muschi, di piante, di radici d’edera, oppure corrucciato, legnoso, magari addirittura cavo, come un antro segreto. Questa esistenza incerta, di cui non capiamo se si tratti di vita o di morte, di qualcosa che pulsa, che respira, che è dotata di un certo istinto alla volontà, oppure di una forma a noi ancora ignota di pietra, qualcosa che non è vivo ma esiste, come un ruscello, un lago, una montagna. Chi sei? Cosa sei? Ci insegneranno che si tratta di un albero.

Gli alberi ci circondano, ne troviamo tanti oramai nelle nostre città rumorose, occupate in ogni metro quadro, trafficosissime, talora ben governate e talora mal governate. Ci sono alberi nel giardinetto sotto casa, nel parco pubblico, lungo i viali, e ci sono alberi che circondano le città, che spuntano nei campi dove i trattori si danno da fare per rivoltare la terra e seminare il prossimo carico di provviste, e ci sono alberi dove siamo abituati a pensarli, anzitutto, gli alberi: nei boschi. I boschi sono i luoghi adatti agli alberi, è lì dentro che comandano, che seguono le loro leggi di natura. Sarà poi una scoperta adulta quella che ci informa che la maggior parte dei nostri boschi sono invece umani, poiché altri umani prima di noi li hanno coltivati, allevati, selezionati, tagliati. Sono boschi che servivano ai nostri avi per vivere, per costruire case, oggetti, strumenti, mobili, ninnoli, per guadagnare quei pochi spiccioli che servivano alla vita. Soltanto qualche eremita, qualche religioso o qualche poeta, un tempo, guardava a questi boschi con l’occhio del naturalista e del visionario, in cerca d’una chiesa senza colonne e portoni, aperta a tutti, che fosse emblema di quel respiro universale che unisce noi e tutte le altre forme di vita.

Non completamente a torto si può sostenere che la lingua italiana sia nata sul margine di un bosco, in aperta campagna. Si pensi all’incipit della Comedia di Dante che fu definita in seguito Divina dal Boccaccio: «Nel mezzo del cammin di nostra vita, / mi ritrovai per una selva oscura, / che la diritta via era smarrita, Ahi quanto a dir qual era è cosa dura, / esta selva selvaggia e aspra e forte, / che nel pensier rinova la paura!». E si pensi al Cantico delle creature del poverello di Assisi, «Laudato sì, mì Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba». La natura, gli alberi, i prati, parte di quel che oggi chiamiamo paesaggio, rappresentano dunque rigogliosa ispirazione fin dagli esordi della nostra lingua volgare. Gli uomini hanno scacciato quel che era natura per secoli, abbattendo, cancellando, purificando, laddove si costruirono case, mura, piazze, palazzi, viali, fino a definire la città ideale che tanto ossessionava la prospettiva di pittori e filosofi. In seguito l’uomo ha riscoperto l’importanza di afforestarsi, introducendo viali alberati, giardini geometrici di siepi e fiori e frutti e dunque arboreti, orti botanici ove ricercare essenze utili alla creazione di farmacopee. Non che al tempo del Senato e dei Cesari gli alberi non fossero importanti e simbolici: si pensi alla quercia, simbolo di Giove, o al noce che sorgeva laddove si racconti fossero sepolti i resti di Nerone, a Piazza del Popolo. Ma è con l’esplosione della mania europea al giardino all’inglese, nel corso del Settecento, che le città iniziarono a progettare spazi urbani alberati e floreali, destinati talora al piacere del piede nobiliare, talora allo svago della cittadinanza. Così nacquero gli square e i giardini di Parigi e Londra, di San Pietroburgo e Nuova York, di Milano e Firenze e Napoli. A circa due secoli di distanza le città sono coltivate, inalberate, ingiardinate, si disegnano ardite soluzioni come il Bosco Verticale e si curano i parchi un tempo privati ed ora pubblici, ci si affeziona alle storie degli alberi più grandi e si ammirano le piante che fioriscono, come le magnolie esotiche di queste settimane, ammirate e fotografate come se fossero popstar. Ma sappiamo anche che l’incidenza del clima impazzito che soffia i venti e scatena fortunali con maggiore veemenza e occasionalità, rende gli stessi alberi fonte di preoccupazione, talora di aspri contrasti, quando non di lutto. D’altronde abitiamo le città fin nei più ridotti spazi, mentre i fratelli alberi avrebbero bisogno di una terra ferma e silente e della carezza del canto dei selvatici.

Nelle ultime stagioni l’editoria e la cultura hanno riconosciuto un desiderio diffuso di ritorno alla natura. Forse è diventato addirittura se non il tema, quantomeno uno dei temi più gettonati e ricercati: le pagine e gli articoli usciti sui giornali dedicati agli alberi, ai boschi, alla natura, alla montagna, al camminare, raccolgono molti interessi. Nei festival letterari il tema oramai è diventato obbligatorio, o quantomeno, popolare. Certo, negli scaffali delle librerie sta uscendo un po’ di tutto, e non sempre la qualità è all’altezza delle aspirazioni, ma è, a mio parere, un’ottima notizia che molti autori abbiano deciso di ritornare a pensare alla natura, di farsi ispirare dalla voce degli elementi, dagli ambienti agresti, da quel bisogno di tornare al mondo che la contemporaneità urbana aveva spesso distanziato e purgato. In un mondo o nell’altro la natura non aveva mai abbandonato le patrie lettere, si pensi a Mario Rigoni Stern, a Dino Buzzati, a Carlo Cassola, al poeta Andrea Zanzotto, al francese Jean Giono, agli americani visionari dell’Ottocento quali Whitman, Emerson, Thoreau, Muir. Negli anni Settanta e Ottanta ebbero un certo successo la collana di guide alla natura pubblicata dalla Mondadori, a cui collaborarono voci forti dell’ambientalismo come Gianni Farneti, Fulco Pratesi, Franco Tassi, Antonio Cederna ma anche Giorgio Bassani, e la splendida collana L’Ornitorinco della Rizzoli, a cura dell’indimenticato Ippolito Pizzetti. Ma di certo l’attuale ondata di voci che a distinta sensibilità hanno inondato le pagine di linfa non credo abbia paragoni con la storia moderna dell’editoria. E d’altro canto quante persone oramai si appassionano di natura, alberi, giardini, fiori, animali, di viaggi a piedi? Nelle nostre vene iniziano a germinare le foglie del nocciolo, i semi dell’acero, le code della volpe, le ali della farfalla, coesistenze che sono ormai penetrate nella visione del mondo che desideriamo abitare e che vorremmo trasmettere alle future generazioni.