Gli 80 euro continuano a non funzionare. Lo confermano anche i dati di luglio: i consumi non solo non si sono ripresi, ma addirittura hanno perso terreno. Ma il dato più preoccupante è che hanno registrato un segno meno anche gli alimentari: insomma, il bonus fiscale voluto dal premier Matteo Renzi resta tra i risparmi, o più probabilmente va a pagare i debiti delle famiglie. Le rilevazioni vengono dall’Istat: -1,5% le vendite al dettaglio in luglio, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (e -0,1% su giugno).

Gli alimentari hanno pesato parecchio sul dato negativo generale, con un sonoro -2,5%; male anche i beni non alimentari (-1%). Ed è negativa anche la media del trimestre maggio-luglio 2014, rispetto a quello precedente (-0,5%).

Si conferma uno stato di deflazione, malattia in cui il nostro Paese come sappiamo è precipitato negli ultimi mesi. Non è “deflattivo” il dato di luglio (prezzi +0,1%), ma lo è certamente quello dei primi 7 mesi del 2014: l’indice grezzo del valore totale delle vendite continua a diminuire (-1,1%) rispetto allo stesso periodo del 2013. Una variazione negativa di pari entità (-1,1%) si è registrata sia per le vendite di prodotti alimentari sia per quelle di prodotti non alimentari.

Le politiche di compressione dei diritti e dei salari degli ultimi anni, evidentemente, non perdonano: e l’agognata “ripresa”, con un aumento dei consumi che possa anche trainare ordini, produzione e Pil, non cade dal cielo come un regalo. E non bastano gli 80 euro, limitati peraltro solo alla categoria dei lavoratori fino a 1500 euro di reddito: i tantissimi disoccupati, i precari, i pensionati, gli incapienti, le partite Iva, tutti soggetti che non possono certo rilanciare i consumi gratis et amore.

Se si sommano le politiche annunciate dal governo – abolizione o drastico ridimensionamento dell’articolo 18, possibilità di demansionamento, tanto per citare due cardini del Jobs Act – si può ben immaginare che i lavoratori saranno ancora meno invogliati a spendere. Anche perché banalmente non avranno le risorse, sempre più compresse dalla corsa alla competitività sulle retribuzioni.

Ieri, giusto per confermare che questa analisi non è peregrina, sono arrivati anche i dati Istat sulle retribuzioni: i salari non sono cresciuti ad agosto rispetto a luglio; si è registrato invece un aumento dell’1,1% rispetto ad agosto 2013. L’Istat ricorda che – come successo con i dati di luglio 2014 – la crescita annua continua a essere la più bassa almeno da 32 anni, ovvero dal 1982, data d’inizio delle serie ricostruite dall’istituto.

Va ricordato ad esempio – c’è anche una manifestazione ad hoc prevista l’8 novembre – lo stallo dei contratti del pubblico impiego, che non vedono aumenti ormai dal 2009, e il governo ha annunciato un blocco anche nel 2015.

Ma l’Istat non è soltanto dati: è anche fatto di persone, uomini e donne che quei numeri rilevano, analizzano, elaborano. Tantissimi i precari, pari almeno al 20% del personale: ieri, come è già accaduto diverse volte negli ultimi anni, i lavoratori hanno bloccato l’uscita delle statistiche, ritardandola di un’ora.

Chiedono la stabilizzazione: sono 372 in tutto, contrattisti a termine, che se va bene otterranno un’ulteriore – l’ennesima – proroga. «In assenza dei requisiti minimi per costruire un percorso di interlocuzione con il governo verso la stabilizzazione – scrive l’Assemblea dei precari Istat in una nota – non si può che formulare un giudizio di dissenso rispetto alla gestione delle risorse umane».

I lavoratori chiedono anche il rinnovo del contratto nazionale: «Le retribuzioni contrattuali sono ferme in termini nominali, ma in diminuzione in termini reali – spiega la Flc Cgil – Diverse le cause: la decurtazione del 10% del fondo per il salario accessorio, la sottrazione delle risorse per la malattia, il tetto agli stipendi e il taglio dei buoni pasto. In media un dipendente pubblico avrà perso circa 5 mila euro di stipendio nel caso in cui sarà confermato il blocco anche per il 2015».