Yvan Sagnet, ingegnere camerunense di 35 anni, presidente e fondatore di No Cap, è uno dei protagonisti delle tante battaglie contro lo sfruttamento del lavoro in agricoltura che si consumano quotidianamente nei campi italiani. Per il suo impegno nel contrasto al caporalato, nel 2017 è stato nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana dal presidente Mattarella. La sua è una battaglia che arriva da lontano, iniziata con gli insulti e le botte subiti da bracciante nei campi di pomodori a Nardò, Lecce. «Nel 2011 lavoravo a Nardò per mantenermi agli studi a Torino e ho vissuto due mesi d’inferno: ho dormito nei ghetti, sono stato insultato e picchiato mentre lavoravo, la mia dignità è stata calpestata. Era schiavitù. In me è nata una rabbia contro questo sistema, che mi ha dato il coraggio di denunciare. Noi braccianti abbiamo iniziato uno sciopero di due mesi, ho guidato quella protesta storica che ha fatto emergere un fenomeno subdolo e strutturale, che si faceva finta di non vedere. Quell’evento ha cambiato la mia vita e ho deciso di dedicarmi alla battaglia per liberare i miei compagni dallo sfruttamento. Il fenomeno lo sappiamo raccontare, lo conosciamo, lo denunciamo, ma mi sono chiesto come porvi fine e ho studiato una proposta credibile e soprattutto efficace. Così è nato il movimento No Cap, diventato associazione nel 2017 e dall’anno scorso attivo con i suoi progetti in tutto il Sud».

Che cos’è No Cap?
È un’alleanza tra i vari soggetti della filiera agroalimentare -lavoratori, produttori, distributori- che di solito non si parlano, o si fanno la guerra, per dar vita a una filiera etica. I distributori della nostra filiera fanno il giusto prezzo e i produttori corrispondono il giusto salario ai lavoratori: il caporale non ha più ragione di esistere.

Qual è il ruolo del consumatore?

Nella nostra filiera il consumatore è fondamentale, ne è parte integrante: quando acquista i nostri prodotti, il valore aggiunto è distribuito equamente lungo tutta la filiera, inoltre finanzia il nostro lavoro con la percentuale che prendiamo su ogni prodotto venduto. Infatti, No Cap non riceve finanziamenti pubblici, è un movimento che mette in rete, oltre agli attori economici, la società civile, la Chiesa, i sindacati che mettono a disposizione servizi, trasporti, alloggi. Un consumatore consapevole, che sappia fare la spesa, contribuisce al contrasto al caporalato e alla illegalità nel settore agrioalimentare. Secondo la Flai Cgil, agromafie e caporalato fatturano ogni anno circa cinque miliardi di euro. Questi soldi sono tanti punti di Pil e provengono dai consumatori, per questo promuoviamo un consumo critico che alimenti un’economia sostenibile.

Dove lavora No Cap?

In tutto il Mezzogiorno. Abbiamo attivisti in tutte le regioni, italiani e stranieri che credono nei diritti e nella legalità. Siamo in Puglia, Basilicata, Sicilia, Calabria, in luoghi simbolo dello sfruttamento dei braccianti, come Rosarno o la Capitanata. No Cap è un grande movimento che non sarebbe andato avanti senza il contibuto di attivisti e società civile, oltre che delle realtà economiche che aderiscono al progetto. Il lavoro è enorme: andiamo nei ghetti, contattiamo e controlliamo le aziende, la distribuzione, ci occupiamo degli aspetti legali, dei contratti, degli alloggi, del trasporto, facciamo controlli di qualità. Per noi sostenibilità economica, sociale e ambientale vanno di pari passo, altrimenti la nostra proposta non sarebbe efficace.

Che cosa possono fare le istituzioni?

Varie soluzioni sono state messe in campo in questi anni, alcune importanti, ma non hanno portato alla soluzione definitiva del problema. Mi riferisco alla legge 199 del 2016 contro il caporalato, un passo importante: il leglislatore ha dato a questo paese uno strumento per contrastare lo sfruttamento, ma quella legge ha un approccio più repressiovo che preventivo. Possiamo arrestare un caporale, due, tre, ma ne arriveranno altri. Noi come No Cap siamo arrivati alla conclusione che se non si interviene su tutta la filiera il problema non si risolve, perché non è soltanto un problema di ordine legale, ma anche economico. Deriva da un modello economico insostenibile, ultra liberistia e ultra capitalistico che schiaccia tutti quelli che sono deboli all’interno della filiera agroalimentare. Le istituzioni devono riorganizzare il modello economico e il mercato del lavoro. Devono promuovere la cultura della legalità con più controlli nei luoghi di lavoro: i campi sono pieni di lavoratori, ma i controlli sono pochi. Serve una riforma dei centri per l’impiego, cioè la promosione di strumenti di incrocio legale tra offerta e domanda di lavoro per sottrarre spazio all’intermediazione dei caporali. Infine, c’è bisogno di affrontare il nodo della formazione dei prezzi, introdurre un prezzo minimo per arginare lo strapotere della grande distribuzione organizzata. Spero che la legge sulle pratiche slaeali sia approvata presto.

Qual è il bilancio delle vostre attività nel 2020?

Molto positivo, al di là delle aspettative. In 12 mesi sono state assunte circa 400 persone, sono aumentate le aziende entrate o che vogliono entrare nella nostra filiera etica e abbiamo acquisito anche un nuovo distributore. Il nostro obiettivo è l’emersione di tutti i lavoratori sfruttati in Italia: sono circa 450mila, e questo è anche un grosso danno economico per il paese. Dobbiamo sottrarli all’econimia illegale: così sfidiamo i caporali e la criminalità, togliendo loro quella miniera d’oro che sono i lavoratori sfruttati o schiavizzati.