Al Senato i centristi della maggioranza nemmeno si preoccupano di salvare la forma. Ricattano apertamente e alla fine portano a casa il risultato. Fanno mancare per sei volte consecutive il numero legale e consentono al dibattito sulla riforma del processo penale, con accluse modifiche della prescrizione, solo dopo aver ottenuto il ritiro degli emendamenti Pd firmati dal capogruppo in commissione Lumia. «Il ministro Orlando si è impegnato a fare riferimento al testo della Commissione sul quale era stato trovato l’accordo. È un successo di Area popolare», esulta l’alfaniana Laura Bianconi.

Vittoria piena e indiscutibile. Non sufficiente però a chiudere la partita. Restano gli emendamenti Casson, ma soprattutto l’M5S ha fatto propri quelli ritirati. Affrontare l’aula con il testo varato dalla commissione significa sfidare circa 150 voti segreti: troppo pericoloso. Dunque la fiducia quasi certamente blinderà il testo, nonostante sia sconsigliabile a un passo dal referendum e nonostante le resistenze del Guardasigilli. Resta solo da vedere se saranno concordate alcune modifiche con i centristi, con un maxiemendamento da mettere al sicuro con la fiducia. Se ne parlerà la settimana prossima. Ma al momento l’affermazione dei centristi è netta. Non solo hanno ottenuto quanto volevano, ma hanno anche dimostrato di poter tenere il governo sotto scacco. La situazione era già chiara giovedì scorso, quando a sorpresa il numero legale era mancato tre volte, imponendo il rinvio. Ieri mattina il gioco è ripreso: in mattinata il numero legale è mancato per quattro volte consecutive, e la seduta mattutina è stata cancellata. Quella pomeridiana pareva destinata a finire allo stesso modo. Alla riapertura il numero legale non c’era. Pausa, rientro in aula, nuova conta, niente da fare, nuova interruzione. La prova di forza non poteva essere più esplicita né più determinata.

Doveva pesare sulle trattative in corso tra Orlando e la capogruppo Bianconi, fresca di nomina dopo aver sostituito Schifani, tornato sotto i vessilli di Arcore. La richiesta era secca e ultimativa: confermare il testo uscito dalla commissione Giustizia, che prevede un innalzamento del tetto per la prescrizione nei reati di corruzione sino a 18 anni. I centristi temevano agguati, consentiti dalla quantità di voti segreti e resi temibili dalla possibile intesa Pd-M5S. C’era, e c’è ancora l’emendamento del relatore Casson, in dissenso dal gruppo Pd, che vorrebbe fermare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Ma soprattutto c’era quello di Lumia, che nei casi di reati ambientali mirava a far partire la prescrizione non dal momento in cui il reato viene commesso ma da quello in cui la notizia di reato arriva al magistrato.

Il primo emendamento ha sempre avuto pochissime possibilità, nonostante l’appoggio dei 5S. Ma per il secondo il rischio era serio, anche perché rispondeva a una logica inconfutabile. Nei reati ambientali, come nel caso dell’Eternit, il danno, la malattia, dunque la cognizione del reato, può arrivare con forte ritardo rispetto al momento in cui questo viene commesso. Il ricatto di Alfano lo ha spazzato via. L’ennesimo voto di fiducia completerà l’opera.