Il referendum è istituto di democrazia diretta mai praticato sino agli anni ’70 e poi variamente utilizzato, talvolta anche in maniera strumentale, ad esercitare una legittima pressione popolare su un Parlamento sempre più inerme ed incapace di interpretare il (buon) senso comune. Così è per ciò che attiene le proposte referendarie sulla giustizia esaminate dalla Corte Costituzionale. Alcune sono chiare. Sui limiti alla carcerazione preventiva, sulla legge Severino, (cioè sulla decadenza automatica di parlamentari e amministratori locali in caso di condanna), sulla estensione anche agli avvocati della valutazione sulla professionalità dei magistrati, si può agevolmente rispondere affermativamente o negativamente anche applicando canoni di principio. Le altre tre, Csm, separazione delle carriere e responsabilità dei Giudici, si prestano a diverse considerazioni.

Il Csm è diventato una sorta di terza Camera con funzioni consultive o interdittive rispetto ad un Parlamento inane, ed ha acquisito un enorme, straripante potere gestendo le nomine dei magistrati dirigenti dei distretti giudiziari strategici, i potentissimi “apicali”, quelli che dispongono sopra e oltre, o contro, la politica.
E qui sta il problema: la politica, quella squalificata, delegittimata, arruffona, (nel migliore dei casi) e imbrogliona (nel peggiore) che non governa più nelle aule parlamentari, nel modo disciplinato dalle procedure istituzionali e con le garanzie dei pesi e contrappesi costituzionali, rientra dalla finestra del Csm composto mediante elezioni appaltate a “correnti” alle quali poi rispondono, in tutto e per tutto, gli eletti.

Un chiaro corto circuito per la democrazia ma anche, a pensarci bene, per la amministrazione della Giustizia, quella quotidiana che talvolta incontriamo noi cittadini. Esempio: quale giudicante non sarà condizionato nella sua decisione se il Pm del processo che sta affrontando è un capo corrente che può decidere il dove, il quando e il come della vita di quel giudice? Problema di non poco conto che si ripresenta – sotto altre vesti – anche in relazione al secondo quesito: la separazione delle carriere.
La commistione non è certezza di parzialità ma non è neanche indice di terzietà. In questo ibrido sta il clima che si vive nei tribunali del Paese e non è un bene per la serenità dei cittadini che vi entrano e per la certezza del diritto o dei diritti che si invocano.

La responsabilità dei Magistrati. Il quesito è stato ritenuto inammissibile. E bene ha fatto la Corte Costituzionale perché – a parte la motivazione tecnica (sarebbe un referendum innovativo e non abrogativo) – la disciplina della responsabilità diretta, non può applicarsi ai magistrati se si guarda al bene ed alla tenuta di uno Stato democratico. E ciò per due motivi che spesso sono oscurati dal comprensibilissimo risentimento provocato da palesi ingiustizie o da grossolani, imperdonabili errori.
Il primo: non è vero che lo sbaglio del magistrato non è sanzionato. Lo è attraverso il regime delle impugnazioni che possono correggere gli errori di ogni tipo. Così come è possibile anche ottenere dallo Stato i risarcimenti dovuti per i casi di danno economico o al bene della vita (ad esempio l’ingiusta detenzione). La responsabilità non può che essere indiretta perché il magistrato amministra la giustizia non in proprio ma in nome del popolo italiano.

Il secondo: chi è che stabilisce se il giudice ha sbagliato? Un altro giudice, ovviamente. Ma anche questo potrebbe sbagliare nel giudicare il primo. E chi giudicherebbe in questo caso? Un altro giudice. E così via. Insomma si innesterebbe una spirale di giudizi tale da minare definitivamente la credibilità, l’efficienza e l’equità del sistema giudiziario. Ovvio che non è in discussione l’ipotesi del dolo o della corruzione, già ampiamente sottoposta alle norme del codice e delle leggi penali applicabili a tutti ed al rispetto delle quali i magistrati non sono affatto sottratti. Sbagliano, certo. Ma non possono essere mai, in nessun caso – salvo per fatti costituenti reato – esposti alla sindacabilità del loro operato da altri che non sia il giudice della impugnazione. Per questi motivi – però – occorre che il Csm sia impermeabile da influenze politiche e che le carriere di giudice e pm siano separate.
Si può fare con i referendum? Gli aspetti da considerare sono talmente tanti che nessuno può essere certo di averli tutti ben presenti nel seggio referendario. Quel che è certo è che i referendum servono, come sempre, non solo per il loro esito, ma per ciò che intendono esprimere i proponenti in termini di monito per i legislatori, per dir loro le cose che non vanno e sulle quali dovrebbero dare risposte.

In questo caso la forte, pressante richiesta di una seria riforma della Giustizia. Organica e non occasionale e fatta da demagoghi o sotto la spinta di suggestioni. Che però – ed è qui la considerazione finale – non può che passare per una nuova legge elettorale in senso proporzionale puro. Solo un parlamento autorevole e di veri “eletti” può mettere mano a questa materia incandescente senza bruciarsi o ritrarre la mano. Il Parlamento attuale è fatto da nominati che la possono solo alzare, la mano. A comando.