Samantha Fuller non fa sconti quando cita le parole che il padre Samuel ripeteva spesso: Speed it up! e Emotion!. Questo era il solo credo al quale attenersi e aggrapparsi, anche nelle difficoltà, quando s’apprestava a realizzare un film. A Fuller Life (presentato nella sezione Venezia classici) non è solo l’amorevole e filiale omaggio al più indipendente e intransigente cineasta americano, ma è soprattutto un atto d’amore verso la gioventù americana tanto cara da indirizzare un’altra delle sue frasi-mantra: «viaggiate l’America è abbastanza spaziosa per accogliervi».

La sua carriera fu rapida e folgorante: a sedici anni divenne cronista in un giornale, poco dopo venne incaricato di seguire tutte le condanne a morte. Il contatto diretto con i walking dead men gli fecero maturare un senso profondo della giustizia e della caducità dell’uomo. cominciò a scrivere romanzi baciati dal successo. Gli ingredienti? basici: amore, odio, azione, violenza, morte. Sono quelli che tappezzeranno le sue battaglie cinematografiche. Si arriva agli anni 40, un tempo cruciale, e Fuller s’arruola nei «faccia da cane» dell’esercito, coloro che saranno carne da macello negli sbarchi di italiani e di Normandia, cui partecipa salvando la pelle, proprio lui come detto già avviato ad una carriera giornalistica e poi di romanziere pulp corteggiato a Hollywood. Ma il desiderio di misurarsi con la vita e la Storia è più forte di qualsiasi tentativo di trattenerlo al lavoro.

Tornato in America saluterà la madre che non vedeva da anni, prima però incontra a Parigi il fratello bucando un altro appuntamento con la Storia, il Processo di Norimberga. Il cinema è ormai davanti l’angolo. Perché invece di scrivere non filmare? Qui si è già nell’autobiografia che diventa materiale sul quale misurare la distanza creata ad arte da Fuller con il suo Cinema e che Samatha coglie con stupore quando ritrova alcune bobine in 16mm che il padre conservò in un abbaino e contenenti riprese che Fuller girò durante la seconda guerra mondiale, sul set dei propri film e in ultimo in interessanti scene casalinghe. Infatti, non va distinto il Fuller pubblico da quello privato.

Gli home-movies raccontano quanto il regista tenesse alla propria famiglia e alla propria indipendenza artistica. L’incontro con i giovani critici e registi francesi della nouvelle vague al giro di boa degli anni 60 commuovono al pari della narrazione, vent’anni prima, dell’incontro in una pausa della guerra con Marlene Dietrich. Poli diversi d’attrazione. Scorrono sequenze dai film più celebri in alternanza a brani autobiografici letti dai suoi attori (da Robert Carradine, Constance Towers a Jennifer Beals) da amici registi e affini (da Friedkin e Wenders fino a Hellman arrivando all’onnipresente qui a Venezia James Franco) che consentono alla regista di punteggiare in didascalia l’incandescente repertorio ereditato e lasciato ai posteri come tentativo, oggi letto in controtendenza con l’America del 2013, di trovare un modo di narrare in forme inedite quella verità giustizia e uguaglianza che l’umanità tarda ancora a far propria.