In quella che rimane, e forse rimarrà sempre, la migliore bussola per orientarsi nel mondo del collezionismo romano del Seicento, i Patrons and Painters di Francis Haskell del 1963 (ed. ital. Sansoni 1966), un ruolo di assoluto protagonista è giocato da Cassiano dal Pozzo, colto e intelligente protettore di Poussin, mentre Marcello Sacchetti è indicato quasi come uno dei padri del neovenetismo e come colui che aveva incoraggiato Cortona a tentare una sintesi tra il disegno di Raffaello e il colore di Tiziano.

Accanto a loro, e a tanti illustri collezionisti, quali i grandi cardinal nipoti della prima metà del secolo, nell’ordine Pietro Aldobrandini, Scipione Borghese, Ludovico Ludovisi e Francesco Barberini, un po’ in ombra finiva per rimanere colui che, per ammissione dello stesso Haskell, alla metà degli anni venti del Seicento possedeva comunque la maggiore raccolta di pittura dell’Urbe, ovvero Vincenzo Giustiniani.

Già nel 1960 Luigi Salerno aveva pubblicato l’impressionante e straordinariamente attendibile inventario post mortem (1638) dei beni del ricchissimo marchese, erede di un grande banchiere genovese, ma ci sarebbe voluto del tempo per riconoscere come Vincenzo fosse stato davvero un gigante tra i collezionisti del suo tempo; probabilmente l’unico, accanto a Scipione, che potesse proclamarsi un intendente d’arte a pieno titolo. In seguito, grazie agli studi di Silvia Danesi Squarzina, depositati in un Einaudi «Saggi» in tre tomi del 2003, è stata recuperata anche la figura del fratello di Vincenzo, il cardinale Benedetto, pure lui committente di Caravaggio e Domenichino; ma senz’altro influenzato nelle sue scelte artistiche dal più aggiornato fratello, che nel 1621 ne avrebbe poi ereditato tutti i dipinti.

Caravaggio, “Amore vincitore”, Berlino, Gemäldegalerie

Con la pubblicazione della Galleria Giustiniana (primi anni trenta del Seicento), celebrazione della sua raccolta di statue e rilievi, Vincenzo fu praticamente colui che diede vita al genere del catalogo illustrato, vivo ancora oggi.

Oltre alla vastissima collezione di antichità, esposta anche nei giardini presso Porta del Popolo e presso San Giovanni in Laterano, ovvero l’attuale Casino Massimo – qui si trovava anche un gigantesco Giove (oggi collezione privata) che trovava termini di confronto solo con i giganti del Quirinale e quelli di collezione Farnese –, Vincenzo possedeva anche una rarissima statua di Michelangelo, la prima versione del Cristo redentore di Santa Maria sopra Minerva, a lungo ritenuta perduta e individuata nel 2000 da Irene Baldriga a Bassano Romano (dove il palazzo del marchese, con sale affrescate, tra gli altri, da Domenichino e Albani, è tornato a risplendere da pochi anni). Nel 1606 il marchese aveva compiuto un «grand tour a rovescio», facendosi accompagnare da un pittore, Cristoforo Roncalli, per studiare la pittura oltramontana, prima di tutto fiamminga, e nel resoconto di quel viaggio, steso dal suo segretario, Vincenzo vestiva i panni del conoscitore ante litteram, commentando di fronte a un dipinto visto a Faenza, «a me pare che sia di mano del Dossi alla maniera con la quale è dipinto» (e poi i compagni avrebbero trovato la firma sulla tela).

A quell’epoca egli era già divenuto, forse, il principale committente e collezionista di Caravaggio, e da lì in poi il suo palazzo presso San Luigi dei Francesi (oggi sede del Senato) sarebbe stato punto di approdo per tutti i seguaci del Merisi, epicentro di una rivoluzione di portata europea: per un grandioso e oggi disperso ciclo di storie cristologiche che fece grande impressione ai contemporanei, lavorarono tutti i grandi caravaggeschi, da Manfredi a Cecco del Caravaggio, dallo spagnolo Ribera agli olandesi Terbrugghen e van Baburen, dal francese Vignon al tedesco von Sandrart. Secondo una guida di Roma del 1686, «vanta questa Casa (i Giustiniani) di havere quaranta quadri grandi per Altari».

Mentre il Borghese acquistava per la sua collezione pale d’altare di Caravaggio e Cecco che per una ragione o per un’altra non erano state bene accolte, Vincenzo metteva insieme una galleria di pale dipinte direttamente per il suo palazzo, qualcosa di assolutamente originale.

All’origine di tutta quell’impresa era un ciclo che doveva aver fatto epoca, impressionando prima di tutto Bellori, ovvero quello dei Quattro evangelisti nato intorno al primo San Matteo e l’Angelo di Caravaggio per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, capolavoro andato distrutto a Berlino nel 1945, a cui si erano poi affiancati gli altri tre commissionati (1614-’17 circa) a Reni, Albani (entrambi perduti) e Domenichino (pagato in realtà, quest’ultimo, dal cardinale Benedetto; oggi in deposito alla National Gallery di Londra).

Quelle tele erano la realizzazione di quanto aveva pian piano maturato Vincenzo intorno al dibattito su fantasia (Cavalier d’Arpino), natura (Caravaggio) e idea del Bello (i Carracci e Reni): proprio in quegli anni, infatti, egli aveva infatti scritto un breve testo teorico sulla pittura, con un’inedita riflessione sulla casistica dei generi, dove proclamava che i maggiori artisti del suo tempo erano «il Caravaggio, i Carracci, e Guido Reni», capaci di conciliare studio dal naturale e idea del Bello; a quella data, va da sé, che Domenichino e Albani potevano considerarsi «i Carracci viventi» (Giulio Mancini).

“Ritratto di Vincenzo Giustiniani”, incisione di Claude Mellan

Qualche anno dopo, però, Vincenzo fece un passo avanti, decisivo. Sostituì il San Matteo di Caravaggio con una replica di Régnier, per riunire tutte le tele del Merisi in suo possesso nella «prima stanza dei quadri antichi» del suo palazzo: il grande lombardo veniva così celebrato, a vent’anni circa dalla sua morte, come un pittore antico, da porsi sullo stesso piano di Tiziano o Raffaello.

Haskell non aveva tutti i torti a sostenere che Vincenzo non fosse stato in grado, al tempo del pontificato barberiniano, di tenersi al passo con i tempi, di divenire cioè anche un committente dei pittori che sarebbero divenuti i protagonisti del nascente Barocco, Pietro da Cortona e Andrea Sacchi. Si deve però sottolineare come il marchese fosse stato tra i primissimi collezionisti dei Bamboccianti, eredi, a passo ridotto, del caravaggismo, capaci di perpetuare il successo del naturalismo fino al Seicento inoltrato.

Doveva inoltre aver subito notato il talento di Guercino, un altro dei padri del Barocco, approdato a Roma solo nel 1621, del quale possedeva due tele.

E, come riconosciuto sempre dal grande studioso inglese, Vincenzo era entrato in possesso di un capolavoro giovanile di Poussin, la Strage degli Innocenti oggi a Chantilly (1625 circa), intorno al quale poi riunì, in una sistemazione di eccezionale originalità, tre tele di soggetto neostoico opera di altri tre oltramontani, due vicini al caravaggismo (Sandrart e Giusto Fiammingo) e uno invece già pienamente barocco (Perrier).

Quando, molti anni dopo, nella «Stanza de’ Sagramenti» del palazzo abitato dai fratelli Dal Pozzo, accanto ai Sette Sacramenti (oggi in deposito alla National Gallery di Londra) furono sistemati diversi altri capolavori di Poussin, forse si era inteso rispondere, a distanza, a quella Caravaggio Room che aveva preso corpo in palazzo Giustiniani, e anche a quell’altro ambiente in cui il maestro del classicismo seicentesco dialogava con pittori così diversi da lui, quasi antitetici.

Secondo Poussin, Caravaggio era un anti-Michelangelo, venuto al mondo per distruggere la pittura; e per un visitatore d’eccezione che, nella Roma del secondo Seicento, avesse avuto accesso a quelle residenze nobiliari, tale contrapposizione si sarebbe materialmente realizzata sotto i propri occhi, con una pregnanza e un’evidenza per noi oggi irrecuperabile.

Tanto la collezione Giustiniani quanto quella Dal Pozzo, infatti, sarebbero andate disperse; la prima in una memorabile asta parigina di inizio Ottocento, che vide partire capolavori di Caravaggio alla volta di Berlino e anche di San Pietroburgo.