Ciò che Giuseppe Zigaina (1924-2015) nell’intenso corso della sua ricerca in pittura non muta è il suo sich aufstellen, la postazione dalla quale non gli è dato (o si dica non ha voluto) recedere. A diciotto anni, era il 1942, ha dichiarato con Girasole questa presa di possesso di un suo proprio punto di vista. E così, dai dipinti degli anni Cinquanta è ribadita la scansione frontale dei piani, dal primo allo slontanare degli orizzonti e dei cieli. E qui, contestualmente, si formula pure l’adesione della pittura di Zigaina ad un tempo unitario che, declinato negli anni in forma visionaria, resterà compiutamente il suo, reso allora con una accentuazione narrativa: l’ora della sera, foscoliana «imago della fatal quiete», nell’incombente notte, custode dell’unica verità degna di essere contemplata.

Nel 1955, in Quadri friulani, il poemetto dedicato alla poetica di Zigaina poi raccolto ne Le ceneri di Gramsci, Pier Paolo Pasolini, riandando al loro precoce sodalizio, al tempo e ai luoghi della loro congiunta formazione, rammenta: « Quel nostro darsi, insieme, a un gioco/di pura passione, misura della nostra cruda//gioventù, bruciante di se stessa, ma il suo fuoco//si spandeva oltre noi; la notte,/ricordi?, ne era tutta piena nel fresco/vuoto// Ah, il filo misterioso/si dipana ancora: e in esso, nuda,//la realtà – l’irreale Qualcosa/che faceva eterna quella sera/// giovanili nereggiano i braccianti/nelle scarpate del traghetto serale,//appoggiati ai manubri, stanchi,/bruciati, mentre la notte già s’annuncia».

Nel dipinto del 1951 Attesa del traghetto serale, vedi due uomini seduti al pontile: tramata di blu e di neri consideri questa loro Erwartung su terreni effimeri, tra proda ed acqua. Mors utriusque vitae medium, la morte che congiunge l’una all’altra vita: nelle vesti d’una prosa contadina hai qui una meditazione sulla morte. La sera, dunque. E la notte. Zigaina par si chieda: dove si deposita il passato e dove resta, come resiste al macinarsi diuturno del mondo in dolore, in memoria, in passione? E il nostro amare presente – gioia, patimento – se non è amore residuo, o scoria d’affetti trasposti, non sta forse raccolto, custodito – celato ai più – in un perseguire costante, nella determinazione caparbia, in una speciale dedizione ad un pensiero, l’ambra vitale, il vello d’oro d’una verità continuamente interrogata? È in una condizione notturna che solo può svolgersi, per Zigaina, il lucido rito del conoscere.

La notte non cancella, ma contiene, affina, restituisce: «seduti sul marciapiede nelle sere d’estate, – ricorda Zigaina in Per un’autobiografia – mia madre mi raccontava di Attila, il flagellum Dei, che, andando a distruggere Aquileia, era passato proprio di lì – diceva – indicando il fossato di là della strada. Era tutto questo che sognavo di notte».

L’accadimento antico resta indelebile, fissato nel qui che lo accoglie e dove ora, con l’occhio della mente, Zigaina ne percepisce in visione i contorni, ne avverte, acuta, la presenza. L’accensione onirica, l’identificare per evocazione, lo assimila a quell’accadimento, lo stringe ad esso col nodo dell’emozione che lega alle verità più intime.
La notte rivela, non occulta. Nel render conto della sua opera di incisore in S’inizia sempre così Zigaina scrive: «La lastra è una superficie buia e sotto la mano che su di essa si posa è fredda. C’è distacco e diffidenza. Quando l’ago comincia a scalfirla, il gesto è insicuro, timido e dissacrante insieme. Ma un segno ne vuole un altro, a sostegno; e si procede. Cautamente. Lo strato bituminoso sollevato dall’ago si raggruma sugli orli, ed appare un riflesso: il segno luminoso di un’acqua».

È nel buio che una luce acquista valore di segno, ci appare adeguata metafora d’ogni umano investigare. In pieno sole il nostro lume interiore perde ardimento, il demone meridiano lo sovrasta, lo offusca e annulla. Nella luce abbagliante di Pan si calcina ogni introspezione. Fin dall’infanzia, ci dice Zigaina: «compresi di essere una creatura già segnata dalla notte».