La giocosa e stupefatta fabrilità di Giuseppe Gallo torna a colpire nella mostra di Verona, Galleria dello Scudo, Il teatro assurdo del viandante (a cura di Laura Cherubini, fino al 31 marzo). Un nuovo ciclo di dipinti, del 2017 come tutte le altre opere presentate, indica proprio nel gusto artigiano e nella pazienza certosina applicati, concettualmente, al massimo della gratuità, la caratteristica-base dell’arte di Gallo. Se realizzare un puzzle implica, come obiettivo, l’immagine compiuta, qui si procede all’inverso: una miriade di frammenti appartenuti ciascuno a determinate unità visive di cui non è dato sapere, che restano esotericamente sigillate, vengono ri-assemblati sulla superficie pittorica (tavola) in insiemi di nuovo tipo, secondo una logica discretamente casuale, para-musicale, a zone e scie di colore prevalente reclamanti ognuna la primazia ottica. I colori pulsano, danno un senso di singolare freschezza perché le centinaia di tessere, dipinte a olio, sono tratte da vetro. Anche acquarello, tempera, affresco, in questi quadri dai titoli evocativi (uno: Loggia dei sogni) che attestano anche, in modo quasi programmatico, l’ingegno politecnico di Gallo, dove il singolo procedimento prende forza nella relazione alchemica con l’altro procedimento.
Lo spazio di Massimo Di Carlo
La mostra – cinque stanze e un corridoio: l’ormai storico spazio di Massimo Di Carlo, dove Gallo si era già espresso nel 2005 con la personale mito-rito-sito – è ben congegnata in un rapporto raffinato su bianco di pieni e vuoti scenici. I dipinti suddetti aprono. Secondo diapason, la stanza del pollaio, Galleria n. 5: qui il pollaio di Gallo, privo della funzione gallina (che invece conserva in altri esemplari, tutti diversi, progettati per l’orto di amici collezionisti e della sua stessa casa di campagna a Massa Martana, vicino Todi), si accampa ingombrante, smalto rosso, in tutta figuralità, ora giocattolo della memoria, piccola casa d’infanzia, ora manufatto di valenza puramente architettonica, dove le rigide squadrature verticali e orizzontali vengono però animate e turbate dalla serpentina para-espressionista della scaletta in basso e del sostegno in alto.
Lo stesso gioco di deformazione «animistica», che è divenuto una specie di sigla in Gallo a partire dall’epica installazione del 2006 Eroi con le dodici sedie-scranno dalle lunghe gambe d’insetto, a ritmi irregolari e spezzati, presiede alla realizzazione di Quinto quarto, terza scena-madre della mostra. Il primo modello, 2015, era in legno, ma l’idea di utilizzare, adesso, il bronzo, materia grave e monumentale, rende ben più pregnante, secondo la logica a contrasto, il senso di ariosa spazialità, di atmosferica trasparenza, fornito da questa specie di rete autoportante calata a perpendicolo a separare in due zone – ombra e luce – la stanza, rete che può anche sembrare un’addizione in orizzontale di sette sghembe scale al paradiso (la fatica del paradiso, un titolo possibile per Gallo).
La nuova serie di autoritratti in bronzo sformati dà modo di riflettere, invece, sullo scanzonato autobiografismo dell’artista. Se «viviamo tra vanesi compiaciuti delle proprie narcisate», Gallo introduce un ironico controcanto, un voler fare male al proprio io trasportandolo dentro una sorta di grottesco ring del sembiante. I cinque busti spiaccicati dell’opera Ho la testa confusissima sono stati ottenuti attraverso un congegno «patibolare» predisposto in studio: la testa, appena tratta dalla creta, viene messa su un ripiano che, tramite una cordicella, scatta e la lascia cadere nel vuoto; l’impatto con il terreno la schiaccia, la deturpazione viene poi fusa in bronzo. Laura Cherubini: «L’artista, ancora una volta, introduce la componente dell’imprevedibilità». Attraverso l’utilizzo programmato dell’accidente, la concettualità di Gallo si propone di aggiungere all’espressione personale un segno proveniente da un’altra parte, sia essa natura, sogno, sopramondo. In questo caso l’effetto è una specie di anamorfosi, procurata non attraverso calcoli matematici di stiramento prospettico, come nel celebre teschio di Holbein, ma sur nature.
Un pugno sulla creta
In Taci. Ho un peso un po’ romantico sulle spalle l’autoritratto, sempre in bronzo, è scazzottato. La deformazione viene da un pugno veemente sulla creta fresca, che, terremotando naso e bocca, ha modificato tragicamente i connotati. Nei pressi, ad alleggerire e anzi invertire in commedia il senso di truculenza, il piccolo cartone telato con la scritta «Taci. Ho un peso un po’ romantico sulle spalle» – inclusa (sopra un disegno, sembra, di nuvole) entro un cerchio dorato – rammenta come nell’opera di Gallo la radice concettuale abbia assunto tra l’altro, in modo simile ad alcuni fratelli maggiori degli anni settanta ma con esiti davvero invidiabili di sospensione semantica, di sibillino vaneggiare, la forma della didascalia che si fa lettering che si fa figura.