Riproporre oggi nelle sale «Pasolini prossimo nostro» di Giuseppe Bertolucci, film del 2006 nato dall’incontro tra il critico Gideon Bachman, la fotografa Deborah Imogen Beer che riprende anche scene mai montate, con il regista sul set di Salò nel 1975, dimostra ancora una volta l’attualità e la capacità di premonizione del poeta di cui proprio oggi si celebra il centenario della nascita.
A più riprese le sue parole si sono adattate all’epoca in cui venivano ascoltate, oggi sembra lampante ritagliare il discorso di apertura sul significato di un film tanto cruciale per la vita stessa del regista, ispirato alla struttura per gironi a Dante e a un de Sade ambientato nel ’44 con la cerimonia nazista nella sua macabra ritualità.

«È la metafora, così Pasolini sintetizza Salò, di ciò che il potere fa del corpo umano, la mercificazione del corpo umano a cosa» e ancora «che i sadici siano i potenti è un dato di fatto» (come nel film un banchiere, un duca, un vescovo, un presidente di tribunale, così in tempi di guerra che viviamo si può aggiungere il sadismo di un altro potente). Subito dopo rievoca i giorni della guerra in Friuli dove era sfollato a Casarsa nel ’43, sfuggito all’arruolamento forzato nel nuovo esercito della Repubblica di Salò, e della resistenza durante i quali morì il fratello minore, partigiano diciannovenne. «Io c’ero, dice, ero nel Friuli annesso alla Germania, mio fratello c’è morto, paesi deserti, rastrellamenti, bombardamenti…scrivevo le mie prime poesie friulane».

Il film di Giuseppe Bertolucci è un poema di inflessibile sapienza creativa sulle ragioni dell’assassinio di Pasolini, una sorta di lettera postuma, di testamento, film saggio e invettiva, sedimentato a decenni di distanza. Nella prima visione ci si concentrava maggiormente sullo scontro di Pasolini con la nuova generazione (anche quella che lo invitava, insieme a Moravia, a lasciare le assemblee studentesche in quanto collaboratori dei giornali dei padroni), sull’impossibilità per loro, generazione di imbecilli omologati, gioventù odiosa della società industriale sottomessa al consumismo, di capire di cosa stava parlando. Anche sulle questioni stilistiche, gli approfondimenti sul linguaggio del cinema, sulle sue «abitudini ossessive» come l’assenza del piano sequenza, o la scelta di attori non professionisti, tranne che in Salò dalla scrittura precisa).

In quegli anni duemila in cui uscì il film di Giuseppe Bertolucci, in epoca di grandi migrazioni l’attenzione andava piuttosto al discorso sull’incapacità dell’occidente di comprendere l’irrazionalità, preziosa caratteristica del terzo mondo da preservare (espressa nella Trilogia della vita). Oggi è lampante una ulteriore riflessione sul potere che sottolinea con il tono della voce: «non è solo un film sul potere, ma sull’anarchia del potere perché il potere sfugge alla logica comune».