Altre cinque persone finiscono in manette per la corruzione a Roma. I pesci grossi sono l’imprenditore Fabrizio Amore e il direttore dell’Area Tecnica Territoriale Maurizio Anastasi. Amiconi e secondo gli inquirenti sodali. Il primo, secondo l’inchiesta, partecipava alle gare d’appalto, inclusa quella succulenta per il restauro dell’aula Giulio Cesare in cui si riunisce il consiglio comunale, con diverse società. Il secondo garantiva che ad assicurarsi le commesse fossero solo e sempre le società del protetto. L’imprenditore, peraltro, di contatti in Campidoglio doveva averne parecchi, e le sue attività erano ramificate. Affittava al Comune due immobili per le emergenze abitative: 2500 euro per ogni miniappartamento. Si sa che le emergenze costano care.

La giornata registra un’altra vittima, che però si professa innocente pur rassegnando le dimissioni. E’ il capogruppo del Pd nel consiglio regionale del Lazio, Marco Vincenzi. In una delle tante registrazioni, Buzzi ne parlava come dell’uomo che si era dato da fare per convogliare sul comune di Ostia 600mila euro. «Affermazioni destituite di ogni fondamento. Mai approvati dal consiglio regionale miei emendamenti per elargire fondi a Ostia e Buzzi lo ho incontrato giusto due volte». E in quelle occasioni l’ex detenuto avrebbe effettivamente chiesto un intervento per far arrivare a Ostia quei soldi, salvo essere mandato a stendere: «Non ho dato alcun seguito». La regione conferma: «Mai destinati i fondi 2014 di cui si parla nell’inchiesta». Vincenzi lascia la carica di capogruppo «nell’interesse del Pd», che sostiene e ringrazia.

L’ex capogruppo si riserva di procedere ad azione legale contro Buzzi, e non è il solo. Diluviano smentite, indignazione e procedure legali da parte di due ancor più eccellenti nomi citati da Buzzi: l’imperatore della spazzatura romana, già patron della discarica di Malagrotta Manlio Cerroni e l’ex prefetto Giuseppe Pecoraro. Secondo il presidente della «29 Giugno», doverosamente intercettato e registrato, il primo avrebbe passato al secondo un milioncino per garantire l’egemonia di Malagrotta sulle discariche romane. Immediata la denuncia del prefetto, corredata da smentita: «Io Cerroni lo ho sempre contrastato». S’infuria, s’indigna e considera le vie legali anche il chiacchieratissimo imperatore della spazzatura romana.
Il problema è che raccapezzarsi nel diluvio di intercettazioni sulle quali si basa questa inchiesta è impossibile. Come un fiume in piena, la straordinaria mole di chiacchierate registrate un po’ ovunque porta con sé di tutto. Informazioni preziose, ma anche millanterie, pareri spacciati per certezze, ipotesi che vengono rilanciate e amplificate dai titoloni e diventano fatti. Buzzi nega tutto. Finanziava i politici, questo sì, e lavorava a spettro amplissimo, ma sempre alla luce del sole. E in effetti quei soldi prestati a un Pd in crisi di liquidità che per un po’ hanno tenuto banco, erano solo quello che sembravano: un prestito pattuito alla luce del sole.

Le stesse motivazioni della sentenza con cui, il 10 aprile scorso, la Cassazione ha respinto i ricorsi di parecchi imputati legittimando così l’accusa di associazione mafiosa, chiariscono al momento ben poco. «Emerge un’associazione di stampo mafioso», scrivono i togati: «Anche i rapporti politici sono intimidazione».
In questa giungla di parole spesso ma non sempre in libertà, spesso ma non sempre vere, non può che diffondersi a macchia d’olio una sensazione di incertezza e minaccia incombente, come la possibilità, di cui si parla peraltro sin dal primo momento, nel novembre scorso, che l’ondata di melma arrivi a toccare la Regione Lazio, sinora solo lambita.

Nell’impossibilità di orientarsi con qualche precisione, la sola certezza, quella davvero indiscutibile, è che a Roma la corruzione fosse ovunque. La stessa decisione se commissariare o meno la Capitale, sulla quale inevitabilmente gravano considerazioni non strettamente legali, rischia così di aprire spazi immensi alle forze politiche che mirano a sfruttare la ghiotta occasione per sferrare il colpo di maglio.

Il sindaco Ignazio Marino conferma di non avere alcuna intenzione di andarsene, «sarebbe il mondo al contrario». La decisione del Pd di blindarlo è giustificabile, anche se lo stesso sindaco dice, nemmeno troppo fra le righe, intervistato da La 7, che nel partito il marcio c’era eccome: «Mentre dal Pd nazionale ho avuto un grande aiuto, ho avuto un ostacolo chiaro che derivava da una parte del Pd romano, quella che non si riconosce nelle persone perbene ma in quelli che io chiamavo in modo dispregiativo capibastone. Con la giunta Marino i capibastone non hanno toccato palla».