Sono passati poco più di due mesi dalla scomparsa di Antonio Giuliano: evento non dirò inosservato, ma discreto, senza fronzoli, intorno, di agiografia accademica, conforme all’asciuttezza elegante ch’era stata dell’uomo e dello studioso.

Giuliano l’ho incontrato di persona poche volte, ma per circostanze varie e in parte imprevedibili mi son trovato a sperimentarne la stima e una specie di amicizia, che riaffiorava a intervalli, sempre sorprendendomi.

All’inizio, ci fu il mio anno di servizio militare a Verona, quando – negli intervalli sottratti alle incombenze di segretario e dattilografo del colonnello che comandava quel reparto di artiglieria pesante – mi lessi con gran gusto i volumi del “Mondo della Figura”: la classica accoppiata di Ranuccio Bianchi Bandinelli (L’arte romana nel centro del potere e La fine dell’arte antica) e quello scritto a quattro mani, con Giuliano, appunto, Etruschi e Italici prima del dominio di Roma. Infatti quei volumi, per gli esami di archeologia all’Università di Pavia, non li avevo utilizzati: di Bianchi Bandinelli, Arturo Stenico soleva dire che era sì un grande storico dell’arte, ma non un archeologo; e l’etruscologia, come disciplina specialistica, a Pavia non c’era ancora. Però conoscevo molto bene l’opera di Giuliano come redattore principe dell’Enciclopedia dell’arte antica Treccani, ideata e diretta da Bianchi Bandinelli e Giovanni Becatti, che era stata lo strumento bibliografico più importante per la mia formazione di archeologo.

Così m’ero andato convincendo, dal mio osservatorio così distante dal “centro del potere” (scientifico e accademico: Roma), di cose che poi mi si sarebbero svelate nella loro infondatezza. Mi figuravo, per esempio, che Bianchi Bandinelli e Giuliano fossero grandi amici, e il secondo il miglior allievo e il più fedele seguace del primo. Qualche anno fa, sfogliando l’Appunto per un libro di ricordi curato da Francesco Solinas per l’Accademia dei Lincei, ho scoperto che in realtà il vero maestro di Giuliano era stato – proprio come per Pallottino e per un insofferente Bianchi Bandinelli e per molti altri – Giulio Quirino Giglioli, il fascistissimo ideatore della Mostra augustea della romanità. Quella decina d’anni, poi, che separavano Giuliano dal gruppo di discepoli di Bianchi Bandinelli più giovani e più radicalmente ideologizzati – quelli che avrebbero alimentato e infine spento, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Novanta, la parabola memorabile dei “Dialoghi di archeologia” –, gli riservarono un posto autorevole, ma un poco eccentrico, nel dibattito tumultuoso di un’epoca di contrapposizioni forti (ma non sempre utili).

Giuliano era in fondo uno studioso di stampo nobilmente tradizionale, uno storico dell’arte antica che teneva alla filologia, viaggiava (ma non scavava) molto e, soprattutto, conosceva benissimo la bibliografia tedesca. L’impegno politico non connotava metodologicamente il suo modo di lavorare: cultura materiale e schiavismo non furono tra i suoi temi. Gli interessavano le opere belle e importanti, con predilezione per l’ambito greco, ma con riserva di sostanziosi sconfinamenti nel mondo italico e romano e una speciale sensibilità per i fenomeni figurativi periferici (le province romane d’oriente) e gli aspetti di continuità o di revival dell’antico (l’arte di Federico II, per esempio), nonché per settori preziosi e ideologicamente pregnanti dell’artigianato (quale la glittica). Curiosità da intellettuale non propriamente organico, che l’accostavano se mai all’altro suo vero maestro, l’anglista (e tante altre cose) Mario Praz.

Fatto sta che, con buona dose di protervia e naïveté, senza badare alle gerarchie accademiche, non molto tempo dopo il mio congedo da Verona e il conseguente rientro a Pavia, mi permisi d’invitarlo a tenere una lezione al Collegio Ghislieri. Allo scorcio degli anni Settanta, Giuliano insegnava a Genova, e a Cesare Saletti, successore di Stenico, che contemporaneamente faceva il pendolare a Cagliari, capitava spesso d’incontrarlo in treno: forse m’aiutò a organizzare l’invito, non so. Giuliano venne al Ghislieri e, se non ricordo male, ci propose, a sorpresa, una lettura quasi iconologica della Melancholia di Albrecht Dürer. Non saprei dire che cosa esattamente ci avesse raccontato – di Warburg non sapevo ancora nulla –, ma di sicuro ne fui colpito, e quel primo incontro mi predispose con viva curiosità alla lettura di una nuova rivista, fondata da Giuliano nel 1981, “Xenia”, che prometteva, nelle opzioni tematiche, la stessa libertà divagante del suo ideatore.

Fu così che, avendo nel frattempo scoperto quanto fosse interessante guardare all’archeologia anche nel suo aspetto storico-culturale di fortuna e sopravvivenza dell’antico, contattai nuovamente Giuliano, per affidargli un mio articolo sulla rappresentazione winckelmanniana dell’arte etrusca e sullo stereotipo storiografico della continuità etrusca nell’arte toscana del Medioevo e del Rinascimento. L’articolo fu accolto, salvo le illustrazioni, che Giuliano pretese qualitativamente migliori: come si può fare storia dell’arte senza un corredo d’immagini adeguate?

Le immagini, appunto. Ricordo che, non so più in quale di queste occasioni intermittenti, gli feci notare che il suo manuale dedicato all’arte greca – nell’edizione (la prima) del 1989 – ne era praticamente privo. Rispose, appena piccato, che quello, per l’appunto, non era un manuale e non ne doveva avere. Risposta che trovo tuttora bizzarra. Di certo quel ‘manuale’ l’usammo per parecchio tempo nella didattica universitaria: aveva il pregio della completezza, non mancava di nulla, tutti i monumenti meritevoli di citazione v’erano puntualmente citati. Il prodotto si raccomandava così per puntualità e ricchezza d’informazione, ma la sua struttura pesantemente catalogica – quanto lontana ormai dal “Mondo della Figura”! – lo rende improponibile agli studenti d’oggigiorno.

La visita all’Università di Pavia e in particolare al Collegio Ghislieri – ma forse furon due – dovette lasciare a Giuliano un grato ricordo. Ne rendono testimonianza due eventi: il dono alla nostra biblioteca antichistica di una cassa di libri ed estratti, che gl’ingombravano l’appartamento romano di via dei Prefetti; e l’iscrizione a Pavia, proprio come alunno del Ghislieri, di suo figlio Giorgio. In seguito, ogni volta che incontravo Giorgio Giuliano nel quadriportico del Collegio, il ragazzo con modi educatissimi mi portava i saluti di suo padre. La conferma di quella specie di amicizia, di cui scrivevo all’inizio. Ma perché mai? Forse aveva apprezzato la mia ragionata adesione alla sua proposta fidiaca per i Bronzi di Riace.

L’ultima volta ci siamo incontrati a Roma nell’ottobre del 2014. Parlavo a un convegno sugli aspetti culturali della romanizzazione d’Italia e avevo scelto – ancora una volta con qualche protervia – di ridiscutere il tema bianchibandinelliano dell’ellenismo medioitalico. Volevo raccontarne ai più giovani e volevo raccontarne come di un problema culturale fra quelli centrali della mia giovinezza (accademica e non solo). Con un pizzico di sgomento, scorsi tra il pubblico alcuni dei grandi protagonisti di quel dibattito: Mario Torelli, naturalmente, e Fausto Zevi; e, un po’ discosto, alla solita sua maniera, con quella faccia metà sorridente metà imbronciata, Antonio Giuliano.

Mi domandai allora (come spesso mi domando), per quale privilegio misterioso la mia esistenza fosse tanto ricca di amicizie sorprendenti e immotivate.