«Comprendere il processo trasformativo che stiamo vivendo richiede pazienza storica» scrive Giulia Sissa, una delle più autorevoli greciste internazionali, studiosa soprattutto di filosofia, di religione greca e di storia della sessualità nell’antichità, oggi professore ordinario all’Università della California di Los Angeles.

Il suo nuovo saggio, I generi e la storia. Femminile e maschile in rivoluzione edito dal Mulino, indaga il divenire dei generi, mettendo in luce (dalla medicina alle scienze sociali) una profonda riflessione sul maschile e sul femminile, sui corpi e sulle disparità di genere, a partire da una chiave storica, filosofica e giuridica. Quello di Giulia Sissa è un libro non solo di grande attualità, ma è anche un percorso urgente, che ognuno di noi dovrebbe intraprendere mentalmente per sperare di vivere un futuro privo di discriminazioni.

Un’utopia? Un non luogo impossibile da sostanziare? Certo che no! È un processo lungo, ma essenziale per il miglioramento della vita delle persone, evitando categorizzazioni o pericolose semplificazioni, in nome della biopolitica o della techne.

Il saggio inizia chiedendosi: «Che cos’è il genere?». La risposta è decisamente articolata e Sissa scrive: «Il genere non è ideologia Femminile e maschile sono proprietà complesse, fatte di qualità corporee e di caratteristiche morali, sociali, estetiche. Noi tutti viviamo l’esperienza di tale complessità. Noi tutti sappiamo che è un’esperienza inseparabile dal corpo vissuto. Affermare che il genere non esiste (perché esisterebbe soltanto il sesso, e che il sesso appartiene alla Natura) è uno dei tanti modi di rapportarsi a questa complessità, impoverendola. Per essere all’altezza del tema servono altre forme di sapere: l’antropologia, la sociologia e, soprattutto, lo studio della storia».

In tal senso, allora, il genere non è una teoria, se per teoria si intende qualcosa di dogmatico, ma un concetto analitico, che non può prescindere dagli effetti contaminanti dell’educazione e dell’ambiente. Leggendo le interessanti e dotte pagine di questo libro, viene in mente un altro piccolo, ma grandioso, saggio: La tirannia dei valori di Carl Schmitt, edito in Italia da Adelphi. Mettendo accanto questi due notevoli saggi, leggendoli quasi in parallelo, vien fuori una convinzione fisiologica, che tuttavia è sempre bene ribadire: il tema del genere non deve essere sottoposto al termine «valore», soprattutto perché quest’ultimo, nelle lingue romanze, ha mantenuto un concetto legato alla forza, all’imposizione, impregnandosi di parametri legati alla quantificazione dell’economia. Come precisava Schmitt, e come si scorge fra le righe del volume di Sissa, ogni valore ha la tendenza a ergersi a tiranno esclusivo dell’intero ethos umano, alle spese di altri valori, come se esistesse un valore superiore e uno inferiore, se non addirittura una contrapposizione fra il nostro valore e quello altrui, spesso derubricato a «non valore».

Nel testo appena edito dal Mulino, dunque, l’autrice parte dalla creatività di un momento storico cruciale, quello del 4 dicembre ‘76, quando ventimila donne si ritrovarono, a Roma, con lo slogan «Riprendiamoci la notte». È evidente che da questa riappropriazione dello spazio-tempo delle donne sono derivati anche i diritti delle differenze, anzi i diritti alla differenza. Va ricordato anche il ‘73, quando, a Sanremo, ci fu la prima manifestazione pubblica del FUORI (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano). Erano quelli gli anni vivi della legge per il divorzio, ma anche gli anni dove, in Italia, si iniziava a intendere la sessualità in maniera dignitosa, intrecciandola a forme di coscienza di sé, tanto personale, quanto collettiva. Un capitolo centrale, nel saggio di Sissa, è quello dedicato alla disparità di genere, che chiama noi cattolici a profonde riflessioni sulla questione ontologica della natura, frutto di fraintendimenti sin dagli scritti aristotelici. Interessante soffermarsi su quel che si legge a p.142, quando l’autrice fa appello «ai diritti del presente», che premono e che hanno spinto l’attuale Pontefice a far emergere il rapporto fra la dignità e la funzione, fra l’elogio e il riconoscimento. Doveroso, però, ricordare, in questo paragrafo (sempre con la considerazione che la Chiesa non è la Repubblica) come papa Bergoglio, nelle giornate di Lisbona, ha presentato la Chiesa come «Madre» che accoglie «todos todos», mettendo all’angolo le discriminazioni. È però, da ribadire che il processo da fare è ancora lungo (anche in tutte le altre religioni), ma un dato ottimistico emerge da queste pagine: «andiamo verso un futuro in cui i nostri desideri saranno sempre più democratizzati e riconosciuti, in nome di una giustizia ugualitaria»