Saranno anche leggere le musiche di Daniel, Eduardo, Ramiro e Ricardo alias Selton, quartetto di musicisti e amici che da Porto Alegre sono partiti dieci anni fa alla volta del vecchio continente, ma quante idee nascondono quei suoni e quei testi. Nel loro quinto lavoro Manifesto Tropicale, in uscita il 1 settembre per i tipi della Universal – discettano di antichi greci, sfruttamento e appunto del manifesto antropofago del 1928 scritto dal poeta Oswald de Andrade, mescolando un indie pop ai ritmi brasiliani. A guidarli un abilissimo maestro concertatore, il produttore Tommaso Colliva (Afterhours, Muse e molti altri nel curriculum): «Tommaso è il quinto membro del gruppo – spiegano – ci siamo conosciuti nel 2006 durante un tour con Arto Lindsay. Il fatto è che nessuno di noi è un leader e ci capita di perdere un pomeriggio per discutere su una cosa, mentre lui con il suo sguardo ’esterno’ riesce subito a vedere la cosa che funziona di più».

A vent’anni sono partiti per Barcellona, dove al Parc Güell suonavano cover dei Beatles, poi l’incontro con Fabio Volo che nel 2007 stava girando il suo programma Italo-spagnolo: «I due produttori del programma, Gaetano Capa e Marco Drago ci hanno visto suonare per strada, gli siamo piaciuti e ci hanno invitato a Milano». E lì nasce il primo progetto, Banana a milanesa, dove rivisitavano il repertorio di Jannacci: «Ci ha colpito tantissimo perché in qualche modo riusciva ad essere un po’ brasiliano. Trattava temi forti, intesi, politici con molta leggerezza. Non è un caso che un suo pezzo – Un giovane telegrafista del 1967 è la la versione italiana di João, o telegrafista, scritta alla fine degli anni Quaranta da Cassiano Ricardo, che Jannacci pescò da un’antologia di poeti brasiliani e musicò».

Manifesto Tropicale è un titolo impegnativo: «Tutto parte dal nostro dna, nel senso che abbiamo origini diverse, discendenze tedesche, polacche, italiane, rumene. Il nostro dna è la sommatoria di diverse culture. Noi siamo emigrati in qualche modo per scelta e non per necessità ed è indubbiamente, ci rendiamo conto, un privilegio gigantesco. Questo ci permette di avere una sensibilità nei confronti dell’altro e delle rispettive culture. Ad un primo sguardo sembra che tutto sia omologato in un’ottica consumistica di tipo americano: ci si veste uguali, stesso taglio di capelli. Poi però ti accorgi che da una parte c’è chi alza i muri e dall’altra chi cerca il confronto. Restando in campo musicale, facciamo l’esempio di Liberato che canta in napoletano, Gali in un suo pezzo ’ Salam aleikum Salam aleikum son venuto pace’. Il nostro ‘manifesto’ significa proprio accettare questa mescolanza».

I Selton risiedono a Milano da anni, quasi meneghini di adozione, e vivono in un unico stabile: «Saudade, il nostro disco del 2013 raccontava la mancanza di un posto che non c’è più, ci riferivamo al nostro Brasil: era la saudade di sentirsi spaesato. Loreto è il quartiere dove ora viviamo, non è il mio paradiso ma lo trasformo. È l’accettazione per renderti poi protagonista del posto dove sei. Invece il nuovo album è l’osservazione del mix di tutte queste cose: vedere il bar sotto casa gestito da un ragazzo cinese mentre dall’altra parte della strada c’è Nashir un fruttivendolo che arriva dal Bangladesh oppure Mina, la portinaia calabrese. Possono alzare tutti i muri che vogliono ma non c’è ritorno. Certo si perdono una parte di culture locali oppure si trasformano. Ma è la vita, una cosa che è sempre stata e sempre sarà».

Cuoricinici è il singolo che anticipa l’album: «È una metafora delle relazioni che nascono dai social, una rappresentazione di come tante relazioni contemporanee siano false, superficiali». Il tour dei Selton parte in ottobre: «A settembre ci concentreremo sulla promozione negli store, magari facendo come per Loreto (dove portarono nel cortile tre tonnellate di sabbia per creare nel pubblico l’illusione della spiaggia, ndr). Ci piace coinvolgere i fan, parlargli, interagire con loro. Se possiamo invitarli a casa nostra, poi, è ancora meglio…».