Il pubblico italiano ha avuto finalmente modo di conoscere a distanza ravvicinata il lavoro di Gisèle Vienne. L’artista era passata fuggevolmente qualche anno fa alla Centrale Fies, suscitando un interesse «medio». Ora la rassegna romana Short Theatre, cambiata nella direzione, ne ha fatto la protagonista dell’intera propria programmazione, con il titolo Prisma che già ne indica la molteplicità coerente dei linguaggi nelle sue facce diverse. La «personale» dell’artista franco-austriaca comprendeva una mostra/installazione dei ritratti di molte delle sue «bambole», pupazzi da animare, che costituiscono una costola significativa della sua produzione artistica. E poi di seguito un film, nato proprio da una sua precedente performance di pupazzi maneggiati da un abile ventriloquo; e infine due spettacoli con attori/danzatori, che hanno permesso di saggiare in diretta la sua «teatralità». Che risulta in effetti piuttosto forte e coerente, sicuramente interessante quanto molteplice.

DEI DUE titoli, il primo, L’Ètang, ha inaugurato subito dopo la presentazione romana, la rassegna di nuovo teatro a Prato, Contemporanea, con una applaudita accoglienza al Fabbricone. Lo spettacolo nasce da un racconto di Robert Walser, al cui centro sta il complicato rapporto familiare di un figlio, le cui inquietudini, e possibilità di ascolto, la regista rende estreme e insieme contraddittorie, quasi fino al delirio. Anche qui la prima immagine è un mucchio di pupazzi umanoidi, che vengono portati via in maniera quasi rituale, mentre prendono corpo le due creature, una madre, o forse sorella, e un figlio (interpretati da due attrici). Entrambi sia per le emozioni e le lacrime che distorcono la voce, sia per le sorprese ventriloque, scoprono molto lentamente il proprio mistero. O almeno suggestioni di quanta verità possa «stagnare» come da titolo, in quel rapporto complesso, in cui le lacrime velano affetti e crudeltà.

MOLTO più vitale (ma non meno «doloroso») il percorso di voci e corpi nell’altra performance vista all’Argentina. Sotto il titolo Crowd va in scena una sorta di rave che è «manuale», quasi un dizionario, di movimento, all’apparenza liberatorio quanto in realtà piuttosto costretto, di grande ritmo (e altrettanta inquietudine) in cui un gruppo piuttosto numeroso è, come dice il titolo, «pieno», o «riempito» (a Roma si direbbe «inzeppato») di gesti e suoni. Perché parla forte la partitura musicale, capace sotto il ritmo martellante di costituire un vero sentiero di percorso. Più o meno obbligato, ma sempre sul punto di approdare a qualche liberazione, che ovviamente si allontana in realtà sempre di più. E sotto il bombardamento di quei suoni, la compagnia numerosa esibisce un campionario di gestualità e condizionamenti capaci di tenere sempre desta l’attenzione. Si esce frastornati, ma con la sensazione «rassicurante» di aver appreso (o almeno preso minima coscienza) del potere del suono su un corpo desiderante (o forse neanche tanto…).