Da marchio e garanzia di notorietà e fiducia, a segnale pericoloso: è lo strambo destino dei «Big V» in Cina, ovvero quelle persone il cui account è stato «verificato» da Sina Weibo, il popolare social network cinese. Prima erano la bussola del paese, della nascente opinione pubblica e anche il motivo del successo di Weibo (la loro presenza aveva creato una montagna di iscrizioni al social network che oggi conta 400 milioni di utenti), oggi sono i «marchiati» dalla repressione di stato. Più sei popolare su Weibo, più rischi. Una nuova legge ad hoc infatti, crea un’aritmetica della repressione con caratteristiche cinesi: l’autore di un post ritenuto un pessimo «rumor», ovvero una diceria falsa, che viene visto da 5mila utenti internet o ripubblicato più di 500 volte, rischia fino a tre anni di carcere. È una guerra che non risparmia nessuno: star del web, attivisti, businessman; tutti sono nell’occhio del ciclone, tanto che ormai sull’internet cinese nessuno cerca più quella «V», in precedenza tratto distintivo di fama sicura.

Xi Jinping spinge sull’acceleratore della repressione dell’internet, un sistema troppo complicato per il Partito Comunista, che in un momento di flessione economica non vuole grane sociali. Con la scusa delle dicerie e delle false informazioni – o accuse di carattere diverso – il Partito prova a far tacere le voci che cercano l’indignazione del popolo; non vengono tollerate informazioni che non siano ufficiali, nell’ambito di una stretta sui media che pone imponenti interrogativi allo sviluppo della cosiddetta «sovranità digitale» cinese.

L’ultima vittima è stata un uomo d’affari che si firmava con il nickname di Huazong (celebre figura letteraria cinese): aveva denunciato almeno cento funzionari rei di indossare orologi e oggetti costosi. Alcune delle sue soffiate avevano portato alla destituzione e all’arresto dei protagonisti, ma ieri a finire al gabbio è toccato a lui. Ancora non si conoscono le cause, ma è prevedibile che la sua detenzione rientri nell’ambito della recente guerra lanciata dal Presidente. Un paradosso: proprio la campagna contro la corruzione, sottolineata da arresti eccellenti, aveva visto ribollire il web cinese di segnalazioni, denunce e accuse. Troppo rischioso però per il Partito il meccanismo che si era messo in moto, troppo alta la possibilità che dalla denuncia di un corrotto si potesse passare alla denuncia dell’intero sistemo politico. E allora arriva la mannaia, senza alcuna distinzione.
La propaganda del Partito comunista, benché possa apparire ottusa e a tratti ridicola, visti i tempi, funziona secondo logiche consolidate, e strappa successi. Lo ha dimostrato il caso Charles Xue, altra star di internet con 12 milioni di followers, arrestato con un’accusa legata alla prostituzione. Il paladino della società civile cinese è apparso domenica in televisione, ammanettato e pronto a confessare i propri errori e anzi, prontissimo a mettersi a disposizione della propaganda. Dal banco delle accuse a quello dei collaboratori: è il risultato dello sforzo del Partito di mettere le cose a posto. «Mi sono sentito come un imperatore», ha raccontato; Pan Shiyi, altra webstar cinese, noto per le sue campagne contro l’inquinamento – benché sia uno dei più importanti e miliardari palazzinari cinesi – è apparso impacciato e nervoso, anch’egli in tv, per celebrare le nuove norme contro le «false informazioni» on line.

Il Partito in poco tempo ha così «sistemato» uno dei rivoli della società cinese più incontrollabili, alla perenne ricerca di una sudditanza del web che in molti casi è sfuggita completamente di mano. Questa nuova stretta non deve sorprendere, basta chiedere a un qualsiasi cinese che si interessi di politica e di economia quale sia il pericolo numero uno per il Partito Comunista e la risposta è univoca: il web.
È su internet che si sono diffuse le voci su funzionari corrotti, incidenti dei treni veloci silenziati dal governo, dati dell’inquinamento, notizie di scioperi nel mondo del lavoro o di proteste ambientaliste. È la rete il nuovo covo potenzialmente sovversivo del potere del Partito ed è per questo che Xi Jinping e i funzionari da lui arruolati in questo durissimo lavoro – che non è detto sia vincente – sono impegnati al massimo. A dargli manforte, negli ultimi giorni, anche alcune affermazioni di Mo Yan, premio Nobel della letteratura, secondo il quale la «censura ha stimolato gli scrittori». Si tratta di un altro argomento comune in Cina, perché non sono pochi gli artisti e gli intellettuali che leggono le misure repressive come uno stimolo alla creatività. Ma quella, appunto è arte; per i tanti che speravano in un’internet capace di veicolare cambiamenti sociali, evidentemente, c’è ancora da lottare e non poco.