L’11 febbraio del ’44 compare in prima pagina su «Je suis partout», uno dei fogli più smaccatamente filonazisti dell’Occupazione, una dichiarazione virgolettata di Louis-Ferdinand Céline a proposito di Jean Giraudoux, morto sessantunenne per avvelenamento nella sua casa sulla Senna, in circostanze poco chiare e ancora controverse, il 31 gennaio precedente: la bile nera di Céline prodiga gli insulti consueti e qui immagina che gli ebrei si divertano a leggere i necrologi di un autore da lui ritenuto tanto il campione del bellettrismo quanto, insieme con Anatole France e André Gide, un emblema dell’odiata Terza Repubblica. C’è del metodo, tuttavia, nella follia di Céline: complessi e ambivalenti sono stati infatti i rapporti fra Giraudoux, diplomatico di carriera, con gli occupanti tedeschi (e tuttora si è in dubbio fra i biografi se egli sia rimasto un opportunista d’alto bordo o piuttosto, nei suoi ultimi anni, sia divenuto un cripto-resistente), così come ambigui sono sempre stati i suoi atteggiamenti nei riguardi delle politiche razziste e antisemite i cui riflessi sporcano, con poche ma evidenti sbavature, più di una sua pagina inventiva e di riflessione.

È assodato, viceversa, che Jean Giraudoux rimane una delle ultime occorrenze del volterrianesimo e cioè un combinato di esprit e di genio romanzesco dove brillano la «deformazione» e l’«irrealismo magico», stando al ritratto che Albert Thibaudet ne fornisce a caldo nel classico manuale di Storia della letteratura francese dal 1789 ai nostri giorni (1936). Non molto della sua già imponente bibliografia è oggi residuato nel senso comune dei lettori, se non il costante rapporto con i classici nella produzione teatrale (e qui si tratta di riletture attualizzanti o di vere e proprie razionalizzazioni delle antiche mitografie), o qualche titolo di narrativa più sbrigliata quale Bella, del ’26, che ebbe enorme successo di pubblico. Si direbbe che la letteratura di Giraudoux sia la stessa di un autore che, nel bene e nel male, abbia ricevuto i segni del proprio tempo e, in effetti, chi apra oggi un suo libro sente subito di essere al cospetto, anche quando non lo sa, di un individuo dal tipico cursus honorum prima di normalista, poi di ufficiale nella Grande Guerra infine di intellettuale raffinatamente cosmopolita e di alto burocrate del Quai d’Orsay.

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Almeno parzialmente, smentisce tale immagine La bugiarda (Elliot, pp. 186, euro 17,50), il romanzo scritto da Giraudoux nella primavera del ’36 (fra il Canada, gli Stati Uniti e varie sedi diplomatiche dell’America centrale), di fatto compiuto pur in assenza di un’ultima limatura ma a lungo inedito, per espressa volontà dell’autore, a causa dello scottante contenzioso autobiografico che lo sottende: uscirà in Francia solo nel ’58 con una breve nota esplicativa del figlio Jean-Paul e immediatamente lo editerà, in Italia, Bompiani nella limpida versione di uno scrittore oggi dimenticato, Libero Bigiaretti, che viene appunto riproposta. Lo schema non potrebbe essere più classico e persino risaputo, vale a dire il triangolo amoroso che spartisce una donna fra due uomini. Nel set di una Parigi anni trenta, nebbiosa e claustrofobica, tutta quanta reclusa in interni borghesi, si muove Nelly, poco più che ventenne, la quale ambisce all’amore fatale, totale, ma è segnata da un senso di inferiorità (la percezione della vita mancata in partenza, inadeguata all’esistere medesimo) che la obbliga alla costante simulazione di quanto non è e non ha, ovvero di ciò che vorrebbe possedere e ambirebbe essere. Nelly è una attrice della stessa vita che le manca al presente e che sogna vanamente al futuro, perciò alterna il suo status, rimanendo in perfetta buona fede, coi due amanti e sposi promessi che le occupano intanto la giornata. L’uno è Gaston, commerciante ricchissimo, uomo rozzo e materiale, che per lei sta allestendo un futuro di agiatezza e gran decoro, l’altro è Reginald, alto diplomatico e uomo politico, il cui esserci allude di per sé alle chances del potere e dunque a una vita senza limiti e vincoli, liberata dai beni materiali e a suo modo poetica. Con queste parole, nella prefazione, Bigiaretti la presenta: «Nelly, categoria e persona, esiste, l’abbiamo conosciuta tutti: è la donna che dice bugie con la maggiore sincerità, la donna la cui menzogna è sempre suggerita dal suo dèmone: cioè l’uomo; è la donna che vuole (per volontà d’amore) salire al livello dell’uomo amato e non può farlo se non rettificando, modificando i dati di una realtà mediocre e sgradevole; e in sostanza facendo sulla propria esistenza un po’ di maquillage per renderla presentabile».

Nelly è per forza di cose una mutante: ora, di fronte a Gaston, è una femmina gaudente e attratta dai piaceri, ora invece, davanti a Reginald, è una sentimentale rugiadosa e quasi incorporea. Prima che mentire alternativamente ai suoi amanti, prima che sdoppiarsi quotidianamente in due entità opposte e complementari, Nelly propone a sé stessa, di volta in volta, quel senso compiuto (una unità di vita, di scopo) che ha sentito mancarle o venir meno a priori. In questo le sue menzogne sono necessarie e in questo vengono da lei spericolatamente artate, costruite, fino a renderle ancora più autentiche della «verità» immobile, inerte, inetta, di cui sono differenti testimoni Gaston e Reginald. Perciò il triangolo si chiude, per così dire, fuori dal triangolo e Nelly, scoperta nel suo gioco, non ritratta ma accetta silenziosamente il matrimonio riparatore con un anziano nobile al corrente di lei e di tutto il resto: in altri termini, il codice sociale, una inderogabile ipocrisia, muta retrospettivamente in verità le menzogne pregresse di Nelly che, infine, è libera di amare e rimpiangere proprio coloro che aveva ingannato. A pensarci, gli oggetti del suo tradimento, Gaston e Reginald, è Nelly ad autenticarli come esseri vivi e non più solo come stereotipi: «Si sarebbe lasciata toccare dal boia, bruciare e arrostire fino a quando, per l’eccesso delle sue sofferenze e della sua ostinazione, avrebbero avuto torto i giudici. Non avrebbe confessato. […]Avrebbe preferito perdere tutto piuttosto che avere torto. Il suo onore voleva che negasse contro ogni evidenza e ogni interesse».

Nelly è una singolarissima degenere e, in un certo senso, una redentrice di Madame Bovary, che in sostanza è l’archetipo de La bugiarda. Quanto a Jean Giraudoux, le sue notorie compiacenze stilistiche, le torniture e le svenevolezze di un esprit altrove datatissimo, nel romanzo postumo danno luogo a una vena più sobria e introversa e anzi a una malinconia che, sia detto ora per allora, sembra la giusta tinta dell’epoca. Nel momento in cui lo irrideva dopo morto, Céline non avrebbe potuto sospettarlo o, semmai, ne avrebbe fatto ancora una volta un caso di elettivo filosemitismo. Uno che li aveva frequentati entrambi, forse il maggiore critico francese fra le due guerre, passato dal bolscevismo al fascismo, quel Ramon Fernandez che sarebbe morto appena sette mesi dopo Jean Giraudoux , di costui aveva scritto che il suo stile prometteva comunque qualcosa di diverso dalle piroette volterriane per le quali andava celebre e infatti scommetteva sul talento non ancora espresso di una psicologia manovrata au ralenti. Non avrebbe mai letto La bugiarda, Ramon Fernandez, ma è come se ne avesse inconsapevolmente suggerita l’invenzione.