«Dovremmo scrivere noi i nostri epitaffi, così quando ce ne andiamo la gente non dovrebbe assistere a questo mercato dell’ego». Lo sfogo è di un’amica irritata per la montagna autocelebrativa che si è scatenata dopo la morte per covid di Giovanni Gastel, fotografo conosciuto in tutto il mondo. Poiché Gastel era generoso e talvolta regalava uno scatto, rigorosamente in bianco e nero, ai giornalisti che nel suo studio assistevano ai servizi per i personaggi che poi avrebbero intervistato, sono in tanti ad avere un suo ritratto e sono stati in tanti a postarlo sui social, con il risultato che per parlare di Gastel hanno mostrato se stessi in un’auto esibizione impressionante, come se non si fosse più capaci di tenere a bada il narcisismo neanche quando muore qualcuno, anzi approfittando proprio della scomparsa di quel famoso per mettersi in mostra e dire «Io lo conoscevo». C’è da restare stecchiti da tutti questi «Io, io, io».
Lui, Giovanni Gastel, probabilmente avrebbe sorriso con quella sua aria fra il malinconico e l’ironico perché non parlava mai male di nessuno. E l’ironia la riservava a se stesso. D’altra parte poteva permetterselo con quel bendiddio di storia che aveva alle spalle. Sua nonna era Carla Erba dell’omonima casa farmaceutica, suo padre Giuseppe Gastel, sua madre Ida Pace Visconti di Modrone, suo zio Luchino Visconti.

DI SE STESSO DICEVA: «Per tanti anni ho pensato di venire da un mondo che ho visto morire. Invecchiando, sono quasi convinto che quella società l’ho solo immaginata e molto idealizzata. Però vi sono legato e in fondo non faccio che parlare di un mondo che non esiste, vivo in un mondo parallelo». Un mondo dove si sapeva di essere stati i padroni di Milano dal 1277 al 1477, tant’è che sua madre gli diceva «Ma proprio uno Sforza devi frequentare? Quelli hanno appeso il cappello». Un mondo dove ci si cambiava per cena, si aveva un autista personale, camerieri e la parola denaro non veniva mai menzionata. Un mondo che, quando decise di fare il fotografo per passione, ma anche «Perché la famiglia era già abbastanza affollata di personalità eccezionali e poi sarebbe stato poco elegante farsi concorrenza fra parenti”» sempre la madre, a cui era legatissimo, gli disse: «Giovanni volevo tanto chiederti, ma tu, lavorando esattamente che cosa intendi dimostrare?». A chi pensa che nascere facile ti apra ogni porta, Gastel rispondeva: «Chi ti conosce ti dà un credito, ma uno. Se poi non funzioni ti lasciano perdere». Anche suo padre lo aveva messo alla prova quando, appena iniziò la professione, gli regalò uno specchietto e un pettine dicendo: «Sei destinato a fare foto tessera per tutta la vita. Il cliente dovrà sistemarsi un po’ prima dello scatto».

È ANDATA DIVERSA, ma il successo non impediva a Gastel di ricordare che: «Ho cominciato con i cataloghi e gli still life perché lì, come diceva Carla Ghiglieri mia prima agente, avrei combinato meno danni e infatti all’inizio facevo foto davvero di merda. Devo tutto a chi mi ha dato fiducia».
Per ricordarlo ed esprimere il proprio scoramento si sarebbero potute dire un sacco di cose, dal suo modo di accoglierti anche alle dieci del mattino offrendoti «Un whiskino torbato» ai racconti su suo zio Luchino che, quando andò in convalescenza a Cernobbio, volle mettere davanti al letto la foto di Marlene Dietrich quando lui si aspettava che ci avrebbe piazzato quella di Helmut Berger. Mettere la propria faccia sulla sua scomparsa era il gesto meno necessario. D’altra parte la classe non è acqua e per averla non serve nascere nobili. A volte basta saper fare un passo indietro.

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