«Ogni sera, et pour cause, mi ritornava in mente questo precetto di Pitagora: «Non passeggiare per strade frequentate». E camminavo. E mi montavo. E camminando con passo sempre più svelto – sempre più «leggero» – mi montavo sempre più. Finivo per non avere più piedi, più gambe, più corpo. Ero anch’io un fachiro e godevo della facoltà di levitazione», scrive Alberto Savinio in Lingua Materna. Giovanna Silva (milanese è fotografa e direttrice editoriale della casa editrice Humboldt Books che ha fondato nel 2012 insieme a Alberto Saibene) affascinata dalla potenza evocativa delle parole di Savinio le ha riportate nel suo ultimo libro fotografico Roma. Never walk on crowded streets (Nero Editions, 2021) presentato alla XXII edizione di pordenonelegge (15-19 settembre).

«Oltre a scegliere Savinio che è uno dei miei autori preferiti, e come me si trova a Roma pur non essendo romano, data la situazione attuale ho trovato perfetta per il titolo la sua citazione di Pitagora che durante la peste consiglia di non camminare mai in strade affollate – afferma l’autrice – Inoltre nelle fotografie selezionate effettivamente manca l’aspetto umano. La città sembra quasi abbandonata. Il testo di Savinio divide, poi, il libro nella parte di fotografie che ho fatto a marzo e in quelle successive, quando sono tornata a Roma dopo il lockdown, da giugno fino a novembre 2020 e ho concluso il lavoro».

Il progetto nasce durante i tre mesi come borsista italiana all’American Academy di Roma…
Quando sono stata nominata la motivazione che avevo indicato era conoscere Roma attraverso gli occhi di persone che la vivono. Nella mia lista c’erano artisti, fotografi e intellettuali che mi avrebbero portato in giro per la città. Alcune le avevo scelte perché le conoscevo già e sapevo che ognuna mi avrebbe portato in una zona particolare. Tra loro ci sono anche la scrittrice Letizia Muratori, l’artista Rä di Martino, la critica e curatrice Emilia Giorgi e la scrittrice Veronica Raimo che erano nel lavoro Le Sante Quattro che ho presentato a febbraio scorso all’American Academy in occasione della collettiva Convergence. Con Letizia, che abita ai Parioli, sono andata al Bioparco; con Veronica che sta al Pigneto ho visitato tutta la zona del Mandrione; con Rä piazza Vittorio e con Emilia il quartiere Coppedè. Poi c’erano Emanuele Trevi, Andrea Cortellessa… ognuno di loro mi ha introdotto ad altri, finché ad un certo punto ero praticamente monopolizzata dalle mie guide. In particolare Luca Galofaro che è architetto e il giornalista Stefano Ciavatta mi hanno portata ovunque. Non era necessario che producessi un libro, ma visto che tutta la mia produzione fotografica è più o meno finalizzata ai libri è finita così.

Con tutti questi «chaperon» sei riuscita comunque a isolarti e trovare il momento giusto per fotografare?
Roma è stato anche un momento di cambiamento personale. Dopo anni in cui la mia carriera fotografica era un po’ messa in secondo piano rispetto a quella editoriale, il fatto di essere in una città diversa dalla mia mi ha permesso di riappropriami del mio lavoro di fotografa. Ho anche iniziato a fotografare con il cellulare. All’inizio camminavo per almeno 10/15 km al giorno, poi sono arrivata a 35/40 e ovviamente una macchina fotografica, per quanto leggera, ha un peso. Uscivo la mattina con il cellulare, poi magari nell’arco della giornata incontravo le mie guide che mi portavano in giro, e con il cellulare prendevo degli appunti. Tornavo spesso in quegli stessi luoghi in maniera anche ossessiva a distanza di mesi e con diverse luci. Il cellulare oltre ad avere un peso specifico minore permette una sorta di invisibilità. In alcune zone o in situazioni particolari, in cui per questioni personali di sensibilità non avrei tirato fuori la macchina fotografica, sono passata inosservata.

Roma è una città complessa: nelle tue foto la forza sta anche nell’associazione delle immagini stesse, dittici che mostrano soggetti contrastanti: non solo la classicità anche le «magagne» come l’incuria, la sciatteria, gli abusi…
Per quanto riguarda la questione dei dittici è un sistema che mi viene naturale. Un po’ perché avendo sempre lavorato con i libri non si tratta che di due pagine vis-à-vis. In più in questo lavoro specifico il dittico mi ha permesso di paragonare l’immaginario del centro di Roma (Colosseo, San Pietro) con tutta una serie di luoghi come Spinaceto o Fonte Meravigliosa, che peraltro molti miei amici romani non conoscono. In me, in generale, c’è un’anima da giovane marmotta, nel senso che l’esplorazione fa parte del lavoro. Avevo una grandissima mappa che avevo diviso in quadranti e ogni giorno mi ripromettevo di esplorare un certo quadrante partendo sempre dal punto in cui mi trovavo. La distanza non era grande, ma a un certo punto si creava il vuoto. A Roma ci sono zone di vuoto urbano che sono difficilmente attraversabili a piedi. Questa è stata la difficoltà nell’esplorarla. Quanto alle «magagne» sono ancora in una fase di innamoramento quindi non riesco a vederle.

Il colore è stata una scelta consapevole?
Una cosa che mi ha stupito tantissimo a Roma è la qualità della luce. Essendo la città del cinema era ovvia, ma la luce di Roma – in qualsiasi periodo dell’anno – non l’ho veramente trovata da nessun’altra parte nel mondo. Adesso che sto facendo un lavoro analogo su Milano mi rendo conto di questa differenza.

La tua formazione in architettura ha influenzato il tuo sguardo?
Sono laureata in Architettura e ho anche fatto l’esame di stato ma non ho mai fatto l’architetto. Pensavo che l’architettura mi avrebbe portata a viaggiare. Assolutamente non vero. L’ho capito al secondo anno di università ma probabilmente era troppo tardi. Quindi ho iniziato a lavorare come fotografa per riviste di architettura, prima per Domus e poi Abitare. Effettivamente la fotografia mi permetteva di viaggiare di più. Poi a trent’anni ho deciso che volevo tornare a studiare e mi sono iscritta ad Antropologia a Ca’ Foscari a Venezia. Mi sono laureata in questa materia ma non ho mai fatto neanche l’antropologa. L’architettura è rimasta nel mio sguardo, intanto perché fotografo architettura e paesaggio e non faccio ritratti. Poi l’architettura ha quest’anima del fare progetti in gruppo, mentre antropologia è legata più ai miei interessi per il viaggio, infatti la casa editrice che dirigo ha il nome di Alexander von Humboldt.

Nel tuo percorso hai avuto dei mentori?
Non so se ci siano dei mentori, sicuramente ci sono stati degli incontri significativi, delle persone a cui devo moltissimo. Uno è Francesco Jodice che quando avevo 23 anni e ho deciso che l’architettura non mi avrebbe permesso di viaggiare, quindi volevo provare a fare fotografia senza saperne nulla, mi ha presa come stagista e mi ha insegnato tutto, sia dal punto di vista tecnico che progettuale. L’altra persona a cui devo moltissimo è Stefano Boeri. Grazie a lui a 24 anni mi sono trovata nella condizione di lavorare per Domus e viaggiare.

A Milano è dedicato il tuo prossimo libro, anche questo è legato a Savinio…
Ho mappato alcuni punti incrociando guide architettoniche di Milano con tutti gli edifici di architettura contemporanea, cioè dal Novecento in poi. Ho collezionato qualcosa come 10mila fotografie di edifici fatte con l’iPhone, poi ci sono tornata anche in bici con la macchina fotografica. Il lavoro si chiamerà Ascolto il tuo cuore, città come il libro di Alberto Savinio. Sono riuscita ad andare in luoghi di cui conoscevo solo il nome sebbene magari li avessi pure studiati, come il quartiere Sant’Ambrogio e lo stesso Gallaratese (il complesso residenziale Monte Amiata – ndr) che è uno degli edifici più famosi dell’architettura contemporanea, progettato alla fine degli anni ’60 da Carlo Aymonino e Aldo Rossi.