Giovanna d’Arco è un’opera dalla drammaturgia sgangherata. I versi di Solera a volte sono oscuri, a volte semplicemente scritti male. La partitura è un’officina di prove e scandagli dove il triviale, sia pure consapevole, si mescola col sublime: così accanto agli effetti bandistici e al famigerato valzerino dei diavoli, troviamo un’orchestrazione sperimentale che include fisarmonica, campane, sistri, arpe, un cannone e, nell’ultima romanza di Carlo, un inaudito accompagnamento di corno inglese e violoncello solo; così l’attacco del II Atto contiene in nuce il «Dies Irae» del Requiem, il duetto d’amore che conclude lo stesso Atto prefigura quello di Un ballo in maschera, la marcia del III Atto è una prova generale dei trionfi di Don Carlos e Aida; i timbri della morte della protagonista («S’apre il ciel») torneranno nel duetto finale di Aida («O terra addio»). Insomma Giovanna è un’opera affascinante proprio perché diseguale e il direttore Riccardo Chailly non lesina nulla, né le promettenti prelibatezze di cui abbiamo appena dato un campione, né la pompa del «brutto»quando Verdi la prescrive, in un disegno unitario e convicente.

Nel tentativo di risolvere le incoerenze e le lacune della drammaturgia, i registi Moshe Leiser e Patrice Caurier e lo scenografo Christian Fenouillat si sono un po’ lasciati prendere la mano in preda a una sorta di horror vacui: per non soccombere al vuoto hanno riempito ogni spazio, reale o simbolico, a loro disposizione. Ecco perciò che la camera ottocentesca della fanciulla isterica in preda a fantasie sessuali e sensi di colpa in cui è astutamente trasposta la vicenda, in una rilettura abbastanza scopertamente (pre)freudiana, ospita, oltre gli immancabili demoni/draghi rossi e angeli rosa/celeste, una ricostruzione della cattedrale di Reims alta 8 metri (che a un bel momento crolla rumorosamente), un Cristo discinto che porta la croce a Giovanna, cavalli e armature dorati, un finto rogo fatto di mobili accatastati, videoproiezioni sulla parte alta delle pareti della camera di un corpo maschile e un corpo femminile nudi che si accarezzano ecc.

Insomma un bric-à-brac che in definitiva seduce il pubblico facendo appello a un immaginario consapevolmente kitsch (il bene e il male di cartapesta che potremmo vedere sullo sfondo di un musical pop/rock d’annata).

Il tenore Francesco Meli si disimpegna risolvendo la scrittura vocale piuttosto convenzionale del suo ruolo, con qualche incrinatura solo nelle note più alte. Il baritono sostituto Devid Cecconi all’inizio ha qualche esitazione ma poi si riscalda, ci prende gusto e porta a termine il ruolo ingrato del padre carnefice con onore ma senza lasciare il segno. Il soprano Anna Netrebko sfoggia la sua voce voluminosa, un registro centrale splendido e dei piani flautati seducenti, con qualche forzatura solo negli acuti a piena voce. Precisissimo come sempre il coro, diretto da Bruno Casoni. Il pubblico osanna tutti applaudendo per più di dieci minuti.