Ormai da troppo tempo navighiamo nelle secche di una generalizzata crisi delle istituzioni democratiche, il cui precipitato consiste nella disaffezione dall’attivismo politico, nel tendenziale aumento dell’astensione elettorale e nell’affermazione di modelli di mobilitazione improntati, nel peggiore dei casi, al leaderismo reazionario e, nel migliore, allo spontaneismo di piazza.

Le forme di partecipazione mutano, si dice: probabilmente non si ha il coraggio di sostenere la loro inequivocabile degenerazione. Una degenerazione ascrivibile ad un numero chiuso di fattori determinanti, identificabili nella cattiva qualità della classe dirigente (derivante dalla inidoneità dei metodi di selezione della medesima) e nella crisi dei corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni) e del parlamentarismo rappresentativo.

La crisi della democrazia coincide con il venir meno della fiducia riposta dai cittadini nei confronti dei processi democratici: senza tale sentimento condiviso sembra allentarsi il “pactum unionis” che lega gli individui nel consorzio civile, e che ne regola la pacifica convivenza.

In un panorama come questo, un legislatore avventato ha approvato una legge di revisione costituzionale che produce una significativa diminuzione del numero dei membri delle Camere senza alcun correttivo istituzionale.

La malattia della nostra democrazia rischia, a questo punto, di essere irreversibile.

In caso di promulgazione della legge costituzionale, infatti, la Camera dei Deputati perderebbe 230 membri, e il Senato 115. Una perdita secca di rappresentanza democratica, senza alcun contrappeso istituzionale o costituzionale.

La netta riduzione dei parlamentari eletti determinerebbe un danno in particolare per i territori periferici, nonché per le minoranze parlamentari, segnatamente per i piccoli gruppi parlamentari, che sarebbero costretti, in ragione del contingentato numero di eletti, a diminuire significativamente il numero di commissioni nelle quali inviare i loro membri.

L’effetto combinato di queste dinamiche è alla fine dei conti soltanto uno: l’aumento del potere parlamentare delle maggioranze al prezzo del sacrificio di quello delle minoranze. Tutto ciò a discapito del pluralismo parlamentare. Altro che intervento contro la cosiddetta “casta”. A ciò s’aggiunga che la principale motivazione addotta dai proponenti a sostegno della riforma è il risparmio di spesa, il quale si dovrebbe assestare sui 57 milioni di euro all’anno, pari a circa lo 0,007% della spesa pubblica totale: un valore ridicolamente esiguo se confrontato con le grandezze della contabilità di Stato. Ma a prescindere dalla rilevanza del risparmio, va anzitutto respinta la vulgata demagogica secondo la quale sia necessario operare un risparmio sui costi degli organi costituzionali: essi rappresentano il fermento vitale del vivere democratico, e non devono subire il condizionamento derivante dal contingentamento delle risorse.

I rischi che si corrono in questa fase di transizione sono alti: un ulteriore indebolimento degli strumenti di democrazia e rappresentanza rischia di accentuare il carattere oligarchico dell’attuale assetto dei poteri. Sono principalmente le nuove generazioni a correre il rischio di ritrovarsi senza colpo ferire in quella che qualcuno ha definito postdemocrazia, un nuovo stadio della vicenda sociale dove la prassi politica non sarà interpretata ma soltanto subita dalla cittadinanza.

Per questi motivi sosteniamo la mobilitazione popolare a sostegno del NO nel futuro referendum confermativo della revisione costituzionale, costituendo il Comitato Giovanile NOstra; per rispedire al mittente il disegno di una democrazia quantitativamente e qualitativamente mutilata e per sostenere con coraggio un’altra idea d’Italia, di democrazia, di vita istituzionale, fondata sulla “partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Convintamente

* Portavoce Nazionale NOstra
** Responsabile Organizzazione NOstra